Il 27 febbraio 2025 si è svolto a Roma un incontro che ricorderemo. Nella cornice della Città dell’Altra Economia, nell’ex Mattatoio, Psichiatria Democratica e Sensibili alle Foglie hanno presentato “SUMUD. Resistere all’odio e alla vendetta in Palestina”. Incontro con la psichiatra e psicoterapeuta palestinese Samah Jabr.
Samah Jabr è una psichiatra, psicoterapeuta e scrittrice palestinese nata a Gerusalemme Est nel 1976. È una delle prime donne a esercitare la psichiatria in Palestina e una figura centrale nella salute mentale in contesti di oppressione. Si è laureata in medicina nel 2015 all’Università Al-Quds e ha proseguito la formazione in Europa, Israele e negli Stati Uniti, completando un programma di ricerca clinica ad Harvard nel 2015. Dal 2016 dirige l’Unità di Salute Mentale del Ministero della Salute palestinese. Ha lavorato a lungo anche come clinica e formatrice, e insegna come professore associato alla George Washington University. Jabr è nota per il suo approccio che unisce salute mentale e diritti umani, ispirandosi al pensiero di Frantz Fanon. Sostiene che il benessere psicologico non possa essere separato dal contesto di occupazione e oppressione. Ha pubblicato libri come “Dietro i fronti” (2019) e “Sumud. Resistere all’oppressione” (2021), che esplorano il trauma collettivo palestinese e le forme di resilienza. Collabora con enti internazionali come l’ONU e Medici Senza Frontiere e partecipa a progetti in diversi paesi colpiti da conflitti. È protagonista del documentario “Beyond the Frontlines” e interviene regolarmente in conferenze internazionali sul legame tra salute mentale e giustizia sociale. La sua visione innovativa e il suo impegno nel coniugare psichiatria e giustizia sociale l’hanno resa una voce autorevole nel dibattito globale sulla salute mentale e i diritti umani.
Riportiamo di seguito il testo completo dell’incontro
A cura di Antonello D’Elia
Traduzioni di Cloe Curcio e Antonello D’Elia
*Una prima versione ridotta di questo testo è apparsa sul n. 137 di Terapia Familiare, Peer review edita da Franco Angeli.

Antonello D’Elia: Come avrete notato dalla locandina abbiamo scelto una forma seminariale per il nostro incontro impostandolo sull’ascolto e la riflessione, sulla parola dunque che è lo strumento del nostro mestiere. Lo abbiamo fatto anche per reagire al clima sempre più tossico del dibattito pubblico, fatto di schieramenti e di scorciatoie del pensiero, dando centralità alla parola e al racconto per descrivere le forme del male, dell’indifferenza e del dolore inflitto che dominano in Palestina e a Gaza. Odio e vendicatività sono tra i risultati dei fatti che avvengono ogni giorno a poche ore di aereo da qui, vicende che risalgono anche a prima del 1948 e che dilagano in tutti i settori della società da entrambe le parti, con le immense differenze di proporzione che conosciamo per quanto riguarda quella palestinese e quella israeliana. Ma che riguardano anche noi.
Samah Jabr lo scrive e lo dice: c’è molto da imparare in Palestina, anche per noi che viviamo in ben altro contesto e abbiamo a che fare con forme molto diverse, in qualità e intensità, dell’ingiustizia e della violenza istituzionale. E questo ci porterà senza dubbio anche a riflettere
sulle nostre pratiche e la nostra esperienza.
I tre libri in italiano di Samah Jabr sono pubblicati da Sensibili alle Foglie, la casa editrice che insieme a noi di Psichiatria Democratica ha organizzato il seminario di oggi. Il più recente si chiama Il tempo del genocidio, il primo Dietro i fronti e l’altro Sumud che è il titolo che abbiamo scelto per questo incontro. Di Sumud ci parlerà la nostra collega, che è psichiatra e psicoterapeuta, a lungo responsabile della Salute Mentale per il Ministero della Salute della Palestina, di questo termine e dei suoi significati che hanno a che fare con la resistenza e la resilienza di quel popolo.
A interagire e confrontarci con Samah ci sarà un piccolo gruppo di persone che ci aiuterà a discutere attraverso osservazioni e domande: Monica Serrano, filosofa e operatrice legale impegnata anche nel lavoro psicosociale con i migranti, che ha lavorato con il Garante Nazionale per i diritti delle persone ristrette e private della libertà, Francesca Ferraguzzi, psicologa, psicoterapeuta, vicedirettrice dell’Accademia di Psicoterapia della Famiglia, Giusy Gabriele, psicologa, dirigente dei servizi di salute mentale del Distretto VI dell’ASL Roma 2 che comprende i territori difficili di Tor Bella Monaca e Torre Angela, Roberto Beneduce, psichiatra, Professore di Antropologia all’Università di Torino, fondatore del Centro Franz Fanon, Giampietro Loggi, Psichiatra, analista junghiano. A tradurre e facilitare il dialogo ci sarà Cloe Curcio.
Partiremo dal concetto di Sumud, chiedendo a Samah di introdurci al senso di questo termine e alla sua utilità nel contesto palestinese ma non solo.
Non si può curare quello che non si vede: SUMUD
Samah Jabr: È un piacere essere qua con voi. Vi ringrazio per il vostro interesse per la Palestina e per quello che avviene laggiù. Comincerò dal Sumud ma vedrete che tornerò più volte sull’argomento nel corso di questo incontro. La mia premessa è che bisogna saper guardare: non si può curare quello che non vediamo. Solo imparando a vedere, ad essere curiosi e a dare nome a quel che vediamo possiamo intervenire come psichiatri e psicoterapeuti.
Il Sumud è una nozione palestinese che risale a più di mille anni fa e se ne trovano tracce già allora nella letteratura e nella poesia del nostro popolo. È più della mera resilienza psicologica in quanto implica una sorta di resilienza attiva, tutti gli atti di resistenza davanti all’occupazione. Nel campo della salute mentale si enfatizza molto l’effetto della resilienza ma il nostro Sumud non si limita a descrivere lo stato delle cose ma include una dimensione di atti che compiamo per non perderci, potremmo dire un atto di sfida all’occupazione e alla colonizzazione. Lo si pratica e lo si vive, è vissuto e praticato in molti ambiti anche della vita quotidiana e lo si può ritrovare pertanto nell’osservazione pratica dei comportamenti dei palestinesi. Siamo di fronte a un trauma cross generazionale e transgenerazionale ma anche il Sumud può essere transgenerazionale, nel senso che può essere trasmesso da una generazione all’altra. Oggi come Palestinesi ci troviamo soverchiati dallo stato delle cose, ci guardiamo intorno e per sopravvivere a questo presente orribile pensiamo ai momenti tragici della nostra storia, come ad esempio la Nabka, e ci chiediamo come hanno fatto i nostri avi, i nostri nonni, i nostri genitori a superarli. Il Sumud può essere concettualizzato come una modalità transgenerazionale di crescita post-traumatica.
Vorrei parlare di tre temi principali. Il primo è l’impatto dell’occupazione sulla salute mentale, sia prima che dopo il genocidio; il secondo è la risposta data dai professionisti della salute mentale alla situazione attuale; il terzo riguarda le sfide e le lezioni che possono essere trasmesse in relazione alla salute mentale oltre i confini della Palestina, quello cioè che può interessare anche a livello internazionale altri professionisti del campo.
Partiamo con l’impatto dell’occupazione. Uno studio relativamente credibile apparso su Lancet nel 2019, prima del Covid e dell’escalation attuale di violenza a Gaza, stimava che l’incidenza delle problematiche di salute mentale a livello individuale ammontasse al 22.1% della popolazione. Un valore che poneva la Palestina in una posizione ben più in alta rispetto ad altri stati della regione che sono anche interessate da situazioni assai complicate, penso all’Iraq, alla Siria, al Libano. Mi sono posta delle domande sulla metodologia di valutazione per arrivare a questo calcolo statistico: le psicopatologie individuali rilevate sono frutto dell’adattamento in arabo dei relativi questionari occidentali, cosa che trovo problematica. Si tratta di questionari usati dal WHO che prevedono 5 domande sul benessere dell’individuo, domande che non riescono a differenziare tra la sofferenza sociale e politica da quella individuale ed esitano in un dato sovrastimato dell’incidenza di patologie come la depressione, ad esempio, o lo stress post-traumatico da cui sarebbe affetto circa il 70% dei residenti in Cisgiordania. Manca un’analisi di come le problematiche a livello individuale siano in realtà una conseguenza del danno fatto al tessuto sociale. I sintomi a cui si assiste sono quelli classici del trauma ma si possono anche esprimere in maniera diversa, ad esempio attraverso la rabbia nella guida, il femminicidio, la violenza domestica, l’oppressione internalizzata, l’invidia, il fratricidio: tutte manifestazioni che non vengono classificate dai questionari ma che andrebbero prese in considerazione. Il trauma in Palestina può essere meglio compreso nella cornice di un trauma coloniale che attecchisce nella storia: è collettivo, continuativo e cross-generazionale. Non ha né un punto di inizio traumatico, un evento, e neppure una fine, prosegue da tempo e nel tempo e si ripete. Si può riassumere in un contesto, in un’atmosfera traumatogena che impatta sulle vite individuali in maniera diversa, attraverso il confronto costante coi soldati israeliani, l’uccisione del proprio padre, la tortura di un amico. Per finire questa discussione sull’impatto dell’occupazione farò qualche esempio clinico. La gente che viene da me non mi dice ‘Sono traumatizzato’, anche perché non verrebbe in mente a nessuno di usare questo termine. Si vive un senso di normalità di cui fanno parte tutti questi eventi, un’assuefazione che riguarda chiunque viva in quel contesto. Quello a cui si assiste è una forte concentrazione sui sintomi fisici, sulla somatizzazione. Ricevo pazienti che mi parlano delle loro disfunzioni, di problemi del sonno o in ambito sessuale. Sembra tutto lì ma se si va oltre la superficie rispetto alla presentazione iniziale di riesce ad individuare la presenza traumatogena della colonizzazione in quasi tutte queste situazioni. Spesso ricevo persone che hanno subìto torture ma non si aprono facilmente e mi raccontano dei loro sintomi fisici e solo in seguito, se crei il clima giusto, emerge quanto hanno vissuto. Può succedere di vedere donne a lutto che hanno perso la famiglia, hanno visto distrutta la loro casa e tutto quello che amavano ma mi parlano dei loro sintomi fisici. Vi faccio qualche piccolo esempio: penso a un ragazzino di 13 anni che ho visto a Gerusalemme per il quale è venuta da me la madre perché gli prescrivessi qualcosa per le sue difficoltà a concentrarsi a scuola, per il suo deficit di attenzione. Ho chiesto alla madre di attendermi è ho passato con lei del tempo in cui mi ha raccontato la storia: il figlio era un ottimo studente ma di recente nella scuola era stato imposto il programma israeliano che, pur se respinto all’inizio, era stato poi adottato a causa delle minacce ricevute di chiudere l’istituto. Il ragazzo aveva chiesto di cambiare scuola ma la madre si era rifiutata perché questo avrebbe comportato il superamento di diversi checkpoint che sarebbe stato pericoloso da affrontare tutti i giorni. Lui si era trovato a non avere altro modo di esprimere la sua sfida, la sua protesta per la situazione, che non rifiutarsi di prestare attenzione, appoggiare la testa sul banco, chiacchierare coi compagni durante le lezioni, e questo era stato inteso erroneamente come deficit di attenzione dai suoi insegnanti mentre era interpretabile come un comportamento di sfida strettamente legato a una situazione politica, di potere. Un buon esempio di patologizzazione di un comportamento di sfida che nasce come una reazione a fatti non clinici ed è legato alla realtà politica. Un altro caso. Durante l’attacco a Gaza ci sono stati molti arresti e sono filtrate voci sui maltrattamenti subìti dai detenuti, tra cui quello di affamarli non dando loro cibo. In Cisgiordania ho osservato che molti ragazzi, hanno iniziato a presentare un’alimentazione disordinata o a cambiare abitudini alimentari, a seguito di quelle notizie. Una ragazzina di 11 anni mi è stata portata dal padre perché ogni volta che lui tornava a casa con del cibo buono, della carne, del cioccolato, lei diventava intrattabile, aveva anche iniziato ad accumulare bottiglie d’acqua e cibo in scatola sotto il letto. Vedendo le immagini da Gaza delle persone affamate temeva che sarebbe successo anche in Cisgiordania dove abitava. In altri casi ho incontrato persone i cui familiari erano stati detenuti e nel carcere avevano subìto violenze anche sessuali ed affamamento: loro replicavano quelle condizioni con un’alimentazione disturbata, come preferisco chiamare questi comportamenti anziché disturbo dell’alimentazione, in quanto mancanti della dimensione estetica e della preoccupazione per il proprio corpo, caratteristica dei Disturbi del Comportamento Alimentare in occidente. Si tratta di reazioni al trauma e all’utilizzo della fame come arma. Io parlo quindi di disordered eating e non di eating disorder, proprio per sottolineare che non siamo in ambito diagnostico da DSM ma descriviamo comportamenti che hanno le loro radici nei fatti che accadono intorno a chi reagisce attraverso il cibo alla sofferenza individuale e collettiva.

Passando al secondo punto, la risposta professionale nell’ambito della salute mentale, come potete immaginare come psichiatri e psicoterapeuti ci troviamo in una situazione soverchiante per la mole di lavoro. Il numero di casi è in aumento vertiginoso e non rimane molto tempo per riflettere, scrivere e documentare adeguatamente in modo scientifico tutte queste circostanze. Ho imparato che questa dimensione è invece fondamentale nel nostro lavoro, innanzitutto per noi, per comprendere meglio i casi che stiamo affrontando, ma anche utile per le stesse persone che trattiamo. Penso ad esempio alle vittime di tortura che solo con una adeguata documentazione possono chiedere giustizia. Inoltre la documentazione è importante dal punto di vista storico come contronarrazione rispetto a quanto viene scritto, come sempre, dai vincitori. Stabiliamo una relazione intima coi nostri pazienti che confidano in noi e il nostro è un ruolo anche di testimoni, siamo chiamati a prendere le parti delle persone che ci danno fiducia: è fondamentale trattare, testimoniare, documentare e prendere le parti dei nostri pazienti. Non sembri strano: la scuola medica occidentale tende ad enfatizzare l’importanza dei concetti di neutralità e di imparzialità nel nostro lavoro ma questo è spesso frainteso al punto da non doversi pronunciare sulla violenza. In Palestina noi viviamo con un’etica della non neutralità perché è fondamentale denunciare la violenza politica, il genocidio, la tortura, la violazione dei diritti umani. Abbiamo il compito di capire e curare i nostri pazienti ma anche l’obbligo di alzare la nostra voce e farci sentire anche per loro. Vorrei ancora dire qualcosa sul tema della neutralità. Le istituzioni della salute mentale a livello internazionale si sono rifiutate di finanziare i professionisti palestinesi che cercavano di portare l’attenzione sull’impatto della violenza sociale e politica sulle persone. Con l’inizio della guerra in Ucraina le stesse istituzioni internazionali che si rifiutavano di pronunciarsi sulla Palestina e ne avevano silenziato le voci, hanno iniziato a fare dichiarazioni di supporto agli ucraini contro le violenze che subivano dai russi. Il Forum Mondiale della Salute Mentale, proprio qui a Roma, è stato aperto dalla moglie di Zelensky per ribadire lo schieramento dalla parte degli ucraini su quel fronte. Cosa che non recrimino se non per la disparità sfacciata rispetto alla Palestina. Dobbiamo sfidare le nostre istituzioni quando praticano il silenziamento delle vicende palestinesi. Ho avuto uno scontro con l’American Psychiatric Association che dopo i fatti del 7 ottobre ha fatto una dichiarazione di completo supporto a Israele, come se tutto fosse iniziato quel giorno condannando all’oblio tutto quanto è avvenuto negli anni precedenti, la storia della Palestina e i traumi dei palestinesi.
Veniamo al terzo punto: si può imparare dalla Palestina? Per quanto riguarda i non professionisti, il pubblico in generale ha assistito in questi mesi al collasso del diritto internazionale e a una profonda deformazione nell’interpretazione dei diritti umani che valgono solo per alcuni; stiamo assistendo in diretta televisiva a un genocidio che nessuno riesce e vuole fermare. Ci confrontiamo con la normalizzazione di un linguaggio che fino a qualche tempo fa ci sarebbe sembrata impensabile: abbiamo ascoltato senza protestare persino il progetto di creare una Riviera a Gaza sopra le decine di migliaia morti. Ora siamo arrivati a un cessate il fuoco precario e la questione è ben lungi dall’essere terminata (siamo al 27 di febbraio ma i fatti successivi, come noto, hanno visto la ripresa dei combattimenti e della distruzione da parte di Israele. N.d.Curatore). Questa vergogna della normalizzazione non è un problema che riguarda solo i palestinesi ma tutti i popoli, perché se oggi avviene in Palestina quando toccherà a qualcun altro? Per quel che attiene poi ai professionisti della salute mentale, siamo di fronte al collasso pratico delle posizioni umanitarie e penso sia importante riflettere sul nostro lavoro e sulla sua storia, visto che in passato la psichiatria ha sostenuto teorie come l’eugenetica, la frenologia, la standardizzazione dei test: tutte vicende che dimostrano quanto sia possibile usarla come una forma di dominio degli uni sugli altri e quindi di vicinanza col colonialismo. Ritengo indispensabile mettere in discussione e rileggere la storia della nostra disciplina rigettando quanto non è più attuale non solo per i palestinesi, ergersi contro la patologizzazione crescente che, anche in questo caso, lo ripeto, non riguarda solo la Palestina. Parlo cioè di quando la rabbia e la sfida al sistema vengono rese patologia, e definite aggressività, disordine psichico; penso anche a quando il nostro sacrificio viene definito come suicidio e basta, anche se avviene nel corso di uno sciopero della fame, senza che nessuno si interroghi sul perché quella persona sta mettendo a rischio la sua vita fino a sacrificarla. Vediamo ogni giorno quanto sia viva nella nostra professione la mentalità imperialista e coloniale. Bisogna poi sfidare l’eccessiva enfasi sull’approccio individuale,il positivismo delle scelte basate sull’evidenza, l’EBM, che tende a non riconoscere la dimensione sociale e collettiva e a trascurare le soluzioni locali ai problemi di salute mentale. Le persone vanno ascoltate, non sono solo vittime della loro esperienza ma anche esperte di quella: possono essere soverchiate dagli eventi che vivono ma hanno anche il potenziale per riuscire ad affrontarle per prime. Va sfidato anche l’aiuto umanitario quando viene promosso come una generosità che si rivela falsa. Va sorvegliato anche il linguaggio, e penso ai Kit di igiene distribuiti alle donne, definiti Kit di Dignità (i Dignity Kits), confondendo igiene e dignità, come se gli uomini non meritassero dignità: non a caso sono stati accolti come un insulto anche verbale alla nostra cultura.

Antonello D’Elia: Come avete ascoltato, le parole di Samah sono semplici e dirette, esplicite nel mostrarci quello che avviene in Palestina e le sue implicazioni. Ci fanno riflettere ad esempio sulle categorie che utilizziamo per indicare la sofferenza, in primo luogo quello di trauma, ormai attribuita a tutti gli impatti che modificano in qualche modo la vita di chi li subisce, ma anche quello di resilienza, anch’essa usurata e utilizzata in modo sempre meno appropriato. Il suo richiamo alla dimensione sociale, collettiva si oppone ai tentativi di rinchiudere nei limiti del singolo individuo le conseguenze di eventi pervasivi che investono gruppi, comunità, nel caso della Palestina un intero popolo. Fuori dagli schemi del linguaggio cui facciamo spesso riferimento il suo è un invito ad usare categorie che ci portino fuori dallo specifico linguaggio della nostra professione, ad allargare la possibilità di vedere e quindi di curare: non possiamo curare quello che non vediamo ci dice e non possiamo che accogliere questa semplice affermazione come un modo determinante per accostarsi all’umano in sofferenza senza isolare questa dai contesti in cui essa si manifesta. Trovo utile e a noi familiare l’esempio dell’abuso. Qualche decennio fa gli abusi non si vedevano, non si andava oltre gli esiti sintomatici di fatti che non indagavamo, protetti da paure e pregiudizi non chiedevamo e non sapevamo come accostarci. Poi si è aperta la scatola e abbiamo iniziato a dare senso a comportamenti e sofferenze evidenti ma le cui ragioni erano nascoste e da quel momento in poi la nostra conoscenza e la nostra efficacia sono cambiate.
Roberto Beneduce: Quello che dice Samah evoca la prospettiva di Franz Fanon, il suo discorso sulla violenza coloniale e sul suo impatto sulla salute dei colonizzati. Prima di porre qualche domanda volevo condividere qualche riflessione che ci riguarda come operatori della salute mentale e come ricercatori e ricercatrici in campo sociale: da empo si dice che Gaza e la Palestina sono un laboratorio. Il laboratorio è un luogo in cui vengono creati fenomeni e rivelati aspetti che spesso non conoscevamo in precedenza o che immaginavamo soltanto. La Palestina è in questo senso il laboratorio in cui le tecnologie di morte e di controllo sono sperimentate da anni, un laboratorio che sta rivelando con chiarezza mostruosa quello che è il nostro tempo, quello che qualcuno ha chiamato ‘la fase apocalittica del capitalismo neoliberale’. Se con tanto cinismo si può parlare di trasformare Gaza in una riviera sui corpi dei morti, questo è lo spettacolo dell’osceno che il capitalismo neo-liberale sta rivelando attraverso lo stato di Israele gli Stati Uniti, con quel che fanno lungo la frontiera messicana una oscenofilia che non avremmo immaginato un tempo, l’oscenofilia della morte inferta e rivendicata, come la chiama Judith Butler quando ci invita a resistere alle passioni fasciste che stanno cercando di inocularci, per stordirci, renderci impotenti. Come resistere a queste passioni? La filosofa americana suggerisce soluzioni molto vicine a quelle di cui ci ha parlato Samah, le cui parole non sono facili da digerire perché provocano quello che noi non siamo disposti ad ammettere e accogliere,e ci invitano a fare qualcosa, non solo modelli o percezioni ma azioni. Riflettere sull’etica della neutralità fa eco a Fanon quando diceva che l’oggettività si rovescia sempre contro i colonizzati. Siamo tutti invitati a mettere in discussione i nostri riferimenti, a mettere da parte la neutralità e l’oggettività delle categorie diagnostiche: in caso contrario siamo complici dell’oggettività che è l’anima del colonialismo, complici di un progetto coloniale, genocidiario, razzista, non da ieri ma da tempo. L’immagine della bambina con la sua alimentazione disordinata che ci ha portato Samah è potente: non un sintomo ma un comportamento coerente con un quadro storico, una profezia in quanto quel che è avvenuto a Gaza sta accadendo in Cisgiordania, ed è qualcosa che rende la psichiatria del WHO, l’umanitario delle ONG e le stesse categorie delle scuole di psicoterapia una materia inutile. Dietro il termine transgenerazionale dobbiamo riconoscere la potenza di un altro concetto: gli eventi stanno trasformando il genere umano, la violenza sta trasformando e producendo nuove forme di umano, altre forme di soggettività cambiate dalla violenza del politico dell’economico. Uno studioso afroamericano, Cedric Robinson, si chiede come sarebbe stata l’umanità nera se non ci fosse stata la schiavitù e conclude che non lo sapremo mai perché la schiavitù ha prodotto un’altra soggettività nera. Nedera Shalhoub-Kevorkian, una studiosa palestinese che ben conosce Samah, parla di un feroce smembramento, dei corpi come della terra, una condizione rispetto alla quale noi occidentali, la stampa, gli studiosi, sembriamo affetti da una paralisi cognitiva. Si combatte tutto questo, si avversano questi laboratori di morte con la testimonianza, una contro-storia, un contro-archivio che contrasti la cancellazione ufficiale della violenza e dei laboratori di morte. Di fronte a questa violenza dobbiamo assumerci la responsabilità: di raccogliere immagini e fatti, amplificarli, ricordarli a tutti, lasciare traccia dove altri vogliono cancellarla. Si uccidono giornalisti, si ammazzano sanitari, si impedisce la circolazione di immagini e commenti, si distruggono gli archivi perché non si vuole che rimangano tracce. Le parole di Samah sono di una severità e una chiarezza radicale: sta scrivendo su una pagina che si vorrebbe lasciare bianca. Stiamo imparando molto dalla Palestina,su che cosa possono fare le democrazie tanto che dobbiamo chiederci se si possono ancora chiamare tali paesi che si comportano come stati genocidiari. Riprendendo le parole di Samah, non si può curare se non quello che vediamo, non si può curare se usiamo un vocabolario ‘sporco’. Persino il termine ‘ricerca’ per i popoli colonizzati è un dirty word suscita tristezza, sfiducia, come dice una ricercatrice neozelandese.
Chiederei ora a Samah di parlarci del fratricidio: Fanon scrive‘in Polonia per un chilo di zucchero si può uccidere’. Sappiamo anche da Samah che il fratricidio è un prodotto cupo del colonialismo riuscito e in Palestina è diventato una realtà drammatica che divide e oppone palestinesi da palestinesi. Forse questa è la sfida terapeutica più dolorosa: sapere che anche i palestinesi sono diventati sorgenti di sofferenza per altri palestinesi: cosa fare di fronte a quest dramma, come curare questo sintomo dolorosissimo?

Samah Jabr: Domanda difficile perché la violenza dell’occupazione israeliana provoca paura, apprensione, ma nominare il patricidio e il fratricidio generano anche vergogna. Dobbiamo tuttavia parlare di certe cose perché altrimenti quello che non riconosciamo non porta a soluzioni. Si tratta di una realtà dolorosa che abbiamo visto già a Beirut, in Tunisia, e ora a Gaza e nei territori occupati ma questo non toglie che si tratti di uno dei capitoli peggiori di questa vicenda. Quando si parla ad un pubblico internazionale si chiede solidarietà mentre parlare di questi argomenti provoca confusione, preoccupazione, può persino suscitare un moto di rifiuto e una critica che si ribalta su di noi: ‘Come si possono supportare i palestinesi se sono loro i primi a non solidarizzare fra loro?’. Per questo non è gradito parlare di fratricidio nel momento in cui si richiede la solidarietà internazionale. Io penso che sia invece importante farlo nella cornice delle conseguenze psicologiche del colonialismo sul tessuto sociale, un fenomeno verificatosi in molti stati appartenuti al mandato britannico, ma non solo. La regola del dividere e governare gioca a favore del potere coloniale: lo scontro tra gli oppressi fa sì che una parte della società degli oppressi si avvicina agli oppressori, risparmiando loro il lavoro e cercando di imporsi sul resto della società colonizzata, ne parlava con chiarezza anche Paulo Freire. È successo coi francesi in Algeria ma anche, più di recente, per alcune frange della società libanese rispetto ad Israele. Penso che bisogna opporsi a questo fenomeno del fratricidio nello stesso modo in cui ci si oppone all’occupazione. È stato ampiamente studiato quello che è successo a Jenin prima del cessate il fuoco a Gaza dove c’è stata un’escalation di violenza per un mese intero (vedi prima, N.d.C.) e l’ANP ha assediato il campo. Ci sono stati più di 16 morti tra cui tanti bambini e un giornalista. Per legittimare questa azione è stata adottata una narrazione specifica per la quale i combattenti delle resistenza a Jenin erano dei contrabbandieri di droga e avevano un piano nascosto per aiutare gli israeliani ad entrare in Cisgiordania e facilitare il genocidio dei palestinesi. E questo raccontoè stato diffuso dall’Autorità Palestinese decisamente : sappiamo anche di recente di 300 casi di tortura da parte dell’ANP documentati anche con video fatti uscire di nascosto, tutto questo mentre avvenivano i bombardamenti a Gaza. A mio parere è stato un tentativo dell’Autorità Palestinese di dimostrare agli americani di essere affidabile, di poter giocare il suo ruolo per il futuro di Gaza e di non avere remore ad attaccare i terroristi palestinesi di Hamas con durezza se necessario. Queste azioni hanno portato inevitabilmente a un progressivo allontanamento di una parte del popolo rispetto alla causa, a tensioni interne e a un indebolimento della fiducia nelle persone. Le voci critiche che si sono espresse su questa storia sono state prese di mira nel tentativo di metterle a tacere come è successo per un medico, portavoce palestinese di prigionieri di altri palestinesi.
Francesca Ferraguzzi: Sono davvero onorata di essere qua. Questa guerra è scoppiata dopo che era stato avviato un progetto umanitario promosso dall’Accademia di Psicoterapia della Famiglia in collaborazione con reti locali, rivolto ad educatori, psicologi, assistenti sociali e operatori insieme a cui individuare strumenti diagnostici e di intervento, in particolare rispetto a bambini e adolescenti che appartengono a famiglie in cui ci sono state vittime di guerra. Mi chiedo allora qualcosa proprio rispetto alle famiglie in cui sono stati distrutti legami intra ed extrafamiliari: dove trovano le risorse per reagire? Quale può essere un intervento, come si può essere utili come pensare ad azioni sensate: se la cura è legata all’attivazione delle risorse, cosa fare di fronte alla devastazione delle relazioni? Si è detto della resistenza all’oppressione a della restituzione della dignità all’individuo, temi che rinforzano il ruolo della socialità e della comunità. Forse la dimensione sociale è la risorsa più grande che possa contrastare questa ideologia di morte per andare oltre la perdita, restituire valore all’alleanza. In presenza di perdite e di traumi ci si confronta con la trasmissione intergenerazionale ma a questo livello c’è la cronicizzazione dell’odio, dello stato di oppressione che viene perpetuato nel tempo e quindi interiorizzato. Mettendomi nei panni degli operatori ho provato a pensare cosa potessero portare di sé in queste situazioni: forse una sintonizzazione emotiva altissima perché gli psicologi, psichiatri, professionisti del settore vivono la stessa condizione traumatica delle persone che devono aiutare, le stesse paure, l’identica esposizione psicologica e sociale. Chi allora meglio di loro può toccare il dolore dell’altro perché lo prova sulla sua pelle? Ecco perché la critica al concetto di neutralità mi ha colpito molto: noi lavoriamo con questa convinzione di non doversi schierare ma di fronte agli abusi e alle violenze è difficile non riconoscere la drammaticità, la disumanizzazione. Penso che vada ridata dignità e umanità all’intervento a partire dall’esperienza condivisa dell’operatore sanitario che ha un valore altissimo per le persone che deve sostenere. Una delle strade percorse,come ci racconta Samah,è ascoltare la storia delle vittime:in realtà sono tutti vittime, chi muore in guerra, chi rimane vedovo, chi perde un figlio. Quindi chiedo: insieme all’ascolto delle singole storie, dove trovare le risorse per aiutare a sopravvivere e andare oltre la brutalità degli eventi e dell’oppressione che perdurano nel tempo e sembrano non terminare? Forse è da qui e non certo dall’uso di tecniche specifiche che possono arrivare il supporto e la cura.
Giusy Gabriele: Gli stimoli ricevuti sono tanti. Viviamo in un paese in cui ci sono stati Marcello Cini, Giulio Maccacaro, Franco Basaglia: molti di noi hanno imparato da loro a misurare gli esiti della povertà, della miseria, la brutalità della violenza istituzionale e ad essere consapevoli che la neutralità della scienza non esiste. Lavoro come responsabile dei servizi di salute mentale in uno dei luoghi più degradati di Roma e forse d’Italia, Tor Bella Monaca dove questi fenomeni sociali sono molto presenti: certo nulla di paragonabile alla Palestina dove con tutta evidenza è in corso un genocidio, eppure le dinamiche per quanto esasperate ed amplificate non sono lontanissime, almeno per certi versi. È importante rivalutare quella cultura che ci ha insegnato quella lezione sulla scienza, dobbiamo ricordarcelo, altrimenti le battaglie condotte nel nostro paese si dissolvono nell’anmnesia. Non possiamo negare le differenze di potere enormi tra colonizzato e colonizzatore, differenze di potere, di linguaggio, di definizione stessa delle cose. Questo riguarda quello che Samah chiama patologizzazione e io psichiatrizzazione, per cui è il potere del colonizzatore che decide la patologia del colonizzato. Esiste una psichiatria sempre disposta a diventare complice del potere, come nel nazismo di allora e in quello attuale di un Trump o di Netanyahu, uno strumento di controllo. Di questo atteggiamento fa parte anche l’esaltazione dell’Evidence Based: poter raccontare quello che è successo e avviene anche qui in Italia può aiutare la Palestina ricordando che la resistenza è terapeutica, che la libertà è terapeutica, che lo è anche la battaglia per i diritti, a partire dal lavoro quotidiano. Dobbiamo insegnare ai nostri pazienti a resistere, non solo in Palestina.In una famiglia in cui c’è abuso e miseria il trattamento non può prescindere dalla riconquista dei diritti fondamentali senza i quali è l’umanità stessa ad essere messa in discussione. La terapia è la riconquista dei diritti. Una lezione che non esito a definire basagliana. Senza avere presente la questione dei rapporti di potere tra terapeuta e terapeutizzato qualsiasi psicoterapia diventa un abuso se non ci pone questi problemi etici: il trattamento, la terapia è la riconquista dei diritti che non è separabile da altri interventi. Anche la questione del maschile, se andiamo a guardare, ha a che fare con il potere per cui penso che questo sia un tema centrale. Maschile e potere sono temi centrali anche nella situazione palestinese, ma direi che vale dovunque, basti pensare ai rapporti sbilanciati tra Europa e Stati Uniti su questo tema e a tutta lo storia del colonialismo. Nei rapporti tra generi si ha a che fare con il ridimensionamento del maschile. Da noi non c’è la giustificazione della guerra e del trauma eppure i femminicidi aumentano proprio perché è in gioco la questione del potere di genere. Mi chiedo cosa avviene in Palestina rispetto a questo.
Che poi l’ANP sia diventata quel che sento è drammatico, ci ferisce. Siamo una generazione che ha fatto il tifo per Arafat a suo tempo e scoprire che la propaganda e il travisamento dell’informazione abbiano fatto ora diventare tutto ISIS, estremismo islamico, e che vengano accusati palestinesi da altri palestinesi per questioni di accreditamento col potere americano mi fa rabbrividire. C’è gran confusione, e i potenti la usano per dominare. Come fare per acquisire la necessaria contro-informazione? Per difenderci da quel sottile influenzamento che affligge anche noi, pur schierati come siamo. Un motivo in più per ringraziare Samah per raccontarci queste cose. La mancanza di informazioni corrette pregiudica la democrazia e ci rende vittime potenziali: se noi , per fortuna, ad essere a rischio sono le nostre teste. Abbiamo bisogno di verità.

Samah Jabr: Colgo alcuni degli stimoli ricevuti. Parto dall’importanza del discorso della famiglia, della comunità, della guarigione e dell’importanza della dimensione collettiva. Poi dirò qualcosa sulla verità a partire dalla necessità di prendere decisioni informate per sollecitare la solidarietà internazionale.
Noi non abbiamo un’assistenza sociale, un supporto materiale alle persone che pure sarebbe molto utile. L’ascolto delle storie diventa essenziale: le persone arrivano con una richiesta specifica rispetto a un sintomo, a una problematica psichica o una somatizzazione, poi, se c’è qualcuno disposto ad ascoltare, viene il racconto. Allora è possibile accogliere la loro sofferenza, il confronto con quello che resta delle loro famiglie e della comunità. La condivisione diviene un valore per resistere. Noi palestinesi abbiamo una socialità molto ricca, non dal punto di vista materiale ma relazionale, un enorme capitale che è una risorsa. Quello che abbiamo osservato ed imparato è che le persone si appoggiano alla cultura, e alla spiritualità, sia a livello individuale che collettivo. La cultura della famiglia e dei legami da questo punto di vista è un capitale. Certo ci troviamo di fronte a una massa di persone coinvolte e non si può considerare di intervenire su una scala individuale, però si possono creare dei circoli, gruppi come quelli che abbiamo messo su di giornalisti, o di medici, o di genitori che hanno perso dei figli e piangono il loro lutto. Sono strategie di intervento collettivo che rispondono a un approccio legato alle risorse effettive che abbiamo: non è solo una questione di scarsità di mezzi economici e di personale, ma di scelte di fondo, quella di lavorare a partire dal collettivo per poi spostarsi eventualmente, se necessario, sul livello individuale. Un approccio che conta sulla presenza delle persone perché i gruppi di ascolto e i circoli di guarigione comprendono le persone da aiutare. Anche qui è in gioco un modo diverso di considerare la dinamica di potere tra terapeuta e paziente: se si è tutti alla pari, non c’è la questione di un’autorità superiore, di persone che chiedono un aiuto e di persone che lo ricevono, dell’autorità del terapeuta e dell’inferiorità di chi ha bisogno. Creiamo le condizioni perché le persone attingano alle loro capacità: è questa la strategia per affrontare le conseguenze dei traumi.
Vi farò un esempio a partire da un’esperienza che abbiamo anche descritto in un articolo. Gli aquiloni hanno un valore simbolico importante in Palestina, compaiono ricorrentemente nella letteratura e nelle canzoni per i bambini. Una volta ho visto le immagini di un bimbo che a Gaza, sotto i bombardamenti, tra le macerie faceva volare un aquilone: da questa immagine abbiamo colto lo stimolo per avviare un laboratorio per la costruzione di aquiloni rivolto a gruppi di bambini che hanno perso membri della loro famiglia. Il lavoro con gli aquiloni è di stimolo per la creatività e la capacità manuale. Vengono dati dei fogli di carta bianca, dei colori e quello che serve per i telai; una volta terminati vengono fatti volare e quindi si ritorna tutti insieme per una riflessione condivisa e raccontarsi quello che si è vissuto. Questo è un intervento collettivo adeguato al contesto culturale in cui si svolge. La Palestina è terra santa in cui ci sono due narrazioni rilevanti riguardo all’ascensione, una è quella di Gesù Cristo mentre in ambito musulmano abbiamo l’Isra e Miraj il viaggio notturno che il profeta Maometto compie in volo in sella al cavallo mitologico Burak con il quale sale in Paradiso. In entrambe queste tradizioni è presente l’idea che le persone possano ascendere e superare in questo modo il dolore. Siamo partiti da un istituto a Ramallah dove abbiamo fatto formazione con insegnanti, quindi non professionisti della salute mentale,che potessero imparare a lavorare coi bambini e diventare facilitatori. Questo è l’esempio di un lavoro che nasce nel contesto e che si avvale del gruppo. Vorrei aggiungere anche qualcosa sulla confusione tra Isis e i combattenti palestinesi. C’è una grande ambiguità terminologica che si può far risalire alla posizione di pregiudizio occidentale nei confronti della Palestina che precede i fatti del 7 ottobre. Ci sono nei miei libri due articoli che mettono in evidenza le differenze profonde tra Isis e i movimenti palestinesi: una delle differenze è che i combattenti per la libertà nazionale in Palestinatraggono dall’Islam una fonte di ispirazione per la loro lotta. Ricordo che Hamas non ha mai colpito al di fuori dei territori occupati della Palestina, non ha mai attaccato obiettivi internazionali e ha mantenuto sempre il focus sull’occupazione. Non ci sarebbe stato genocidio a Gaza se non ci fossero stati l’islamofobia e l’orientalismo nel mondo: sono queste premesse che hanno autorizzato i governi occidentali ad agire contro la Palestina, creando attraverso di essi la demonizzazione dell’Islam e del mondo arabo. Preferisco parlare di odio per l’Islam piuttosto che di islamofobia perché questa tende a minimizzare il fenomeno alludendo a una semplice paura. Potremmo poi parlare a lungo sulla legittimità morale della resistenza palestinese e sulla scelta militare e combattente che è stata fatta propria da tutti i popoli colonizzati. Ho scritto tempo fa un articolo che si intitola ‘La resistenza palestinese: diritto legittimo e dovere morale’in cui prendo in esame tutte le forme di resistenza esistenti tra cui, e non solo, quella dell’opzione militare. Anche la Dichiarazione sui Diritti dell’Uomo ratifica il diritto a difendersi con la forza in caso di aggressione, per cui mi chiedo: perché a tutti è riconosciuto questo diritto ma non ai palestinesi? Al centro di tutto c’è la questione della giustizia e il suo potere curativo. Per i palestinesi la ricerca di giustizia è fondamentale e dovrebbe essere supportata dai professionisti della salute mentale per il suo valore di cura. La psicologia della liberazione, come ci insegna Freire, sottolinea l’importanza della ricostruzione e del recupero della memoria: molto spesso ho udito israeliani dire che gli anziani moriranno e i giovani dimenticheranno. Per i palestinesi è essenziale il recupero della memoria di quello che è avvenuto ai loro genitori, ai nonni, agli avi perché questo può aiutare a trasmettere gli ideali di resistenza, di Sumud, di crescita postraumatica. Un approccio di questo tipo può diventare un antidoto al fratricidio perché il dialogo interno tra oppressi è spesso sottovalutato ma è importante. Spesso nei contesti internazionali a cui veniamo pure invitati ci troviamo ad ascoltare un monologo israeliano che viene condotto in nostra presenza e che subiamo.
Una parola finale sull’agency, sulla capacità di reagire. Intendo il trauma come il disastro dell’impotenza per cui qualsiasi sforzo per combattere l’occupazione e l’impotenza e per restituire agency aiuta i palestinesi a guarire: per questo è importante che le loro voci vengano amplificate e la loro causa venga messa al centro.
Monica Serrano: Grazie a Samah per quello che ci ha detto sin qui in modo chiaro e radicale. Ho segnato alcuni punti che mi sembrano importanti che riguardano il nostro lavoro qui. Il primo è: We cannot treat what we don’t see, ‘non possiamo prenderci cura di quello che non vediamo’, e questo vale sia per le nostre diagnosi ma anche per quelle categorie che a livello di intervento sociale e umanitario non fanno giustizia delle conseguenze di un trauma che è collettivo, continuo e intergenerazionale. Al tempo stesso non riusciamo a curare quel che non vediamo anche perché progressivamente non solo la clinica ma il quadro politico e giuridico fa sì che sempre di più noi non vediamo, cioè non incontriamo i migranti. E questo avviene anche nel lavoro sociale: da qui a un anno e mezzo, per il nuovo patto dell’Unione Europea riguardo l’immigrazione e l’asilo, le persone che scappano dalle loro terre ed arrivano da noi, saranno trattenute attraverso procedure di frontiera. Per non parlare della questione dei paesi sicuri. II trattenimento, cioè la privazione di libertà, era inimmaginabile anche solo 10 anni fa. Un laboratorio di reclusioni ed esclusioni che procede inesorabile contro chi chiede di poter vivere. Non vediamo chi viene espulso, non vediamo questi procedimenti di screening e pre-screening delle persone vulnerabili, arbitrari, buffi, grotteschi, che decidono di chi può restare in quanto tale mentre tutti gli altri vengono respinti. Eppure i migranti, quando li vediamo, ci fanno ascoltare vicende vissute sulla loro pelle nello spazio dell’incontro e in quello terapeutico. C’è un punto di incrocio con il lavoro di Samah sulla privazione della libertà e sulla violenza diffusa che non vediamo ma con cui veniamo a contatto nel lavoro di cura. Viene da chiedersi allora quali siano i luoghi della cura, di quale cura, della cura di cosa? Siamo in grado di accogliere le storie, le vite, le traiettorie, le espulsioni, le precarietà esposte alla forza di legge? Forse dobbiamo ripensare alla cura e ai luoghi dove praticarla, dobbiamo spostarci, ripensarli. Come avviene a Il Nodo Sankara con il gruppo multi generazionale ad accesso diretto che conduciamo da qualche tempo, un esperimento di luogo inedito per una cura inedita,coi migranti e non per i migranti, in cui la separazione tra chi cura e chi è curato non è così netta anche per la presenza stabile dei mediatori culturali, persone che conoscono anch’esse la migrazione e le sue sfide. Inoltre il confronto fra generazioni introduce un elemento fisico e simbolico di grande potenza umana. Mi pare che questa pratica si possa connettere ai gruppi di ascolto di cui ci parla Samah. C’è poi un altro punto che riguarda il femminile, cioè la questione del genere. Vorremmo che ci dicessi qualcosa in più sul rapporto tra differenza di genere e violenza in Palestina. Penso che ci possa riguardare anche rispetto a un reinquadramento del fenomeno dei femminicidi perché rimanda all’esigenza di combattere la priorità dell’individualismo e un’idea di donna astratta, autonoma, indipendente; combattere il positivismo scientifico occidentale e cambiare l’idea dell’aiuto umanitario come soccorso paternalistico, come con i Kit Dignità di cui ci hai parlato, come se solo le donne e non tutti debbano vedere preservata la loro igiene intima, associata alla dignità. Un ultimo tema riguarda la spiritualità di cui parlavi. Anche qui come operatori della cura ci confrontiamo, spesso senza capirla, con questa dimensione, abbiamo rimosso troppo facilmente la fede nelle relazioni di cura. Ad esempio, nel corso del monitoraggio delle condizioni dei centri di detenzione amministrativa in Italia a cui ho partecipato, sui muri fatiscenti di cemento armato e nelle gabbie abbiamo visto tante preghiere. Un uomo marocchino, anziano, mi diceva ‘sto tornando in Marocco dopo trent’anni che vivo in Italia. Mi cacciano. Se l’uomo non perdona Dio perdona’. E lo ha detto con un sorriso che mi pareva una forma di resistenza al potere, come se avesse una chiave in più per combattere, e dicesse ‘Voi non potete tutto’.
Samah Jabr: Partiamo dalla discussione sui luoghi della cura. È difficile immaginare che un luogo della cura non sia uno spazio sicuro: il concetto di sicurezza in Palestina è una sfida. E a Gaza è molto difficile trovare un posto sicuro. Si può scendere a compromessi sulla qualità dello spazio e forse anche sulla sicurezza dell’edificio, ma un edificio ci deve essere, una casa magari. Ma se le case sono rase al suolo di quale sicurezza possiamo parlare? Ci sono molte barriere che impediscono la sicurezza. C’è poi un altro tema che riguarda la sicurezza lavorando in Palestina: Israele è uno dei principali esportatori di tecnologie per lo spionaggio in tutto il mondo, perciò diciamo che nel quadro in cui opero non sono solo gli schizofrenici che ti chiedono di mettere via il telefono o di spegnere il computer prima di fare una seduta. Molto spesso mi trovo ad interagire con pazienti che preferiscono non dirmi il proprio nome ed io accetto di trattarli perché so che potranno raccontarmi cose che potrebbero metterli in pericolo se si sapesse chi sono. La situazione è molto difficile. Quello che cerco di fare da anni è realizzare un sistema di cura meno gerarchico, che miri anzi ad ampliare l’ambito delle gerarchie: in questo sistema dovrebbero entrare le figure religiose della comunità, le ostetriche, gli insegnanti, i dottori, gli infermieri e tutti coloro che sono in grado di aiutare pur non essendo necessariamente dei professionisti. Abbiamo realizzato tanti progetti di formazione per queste figure. Penso ad esempio agli incontri con i responsabili religiosi perché possano iniziare a parlare di suicidio in una maniera problematica e non come un tabù. Ci sono molti casi in cui gli adolescenti e i bambini hanno difficoltà a fidarsi di uno psicologo o di uno psichiatra e ascoltano più facilmente altre figure. Magari l’istruttore di Aikido o con gli ex prigionieri che hanno avuto esperienze simili a quelle delle loro famiglie. Questi interlocutori non professionali che forniscono un supporto psicosociale devono essere aiutati a identificare chi tra le persone ha bisogno di parlare con uno specialista e chi può invece fermarsi ai colloqui con loro. A Gaza abbiamo creato gruppi di intervento sul trauma con i bambini delle scuole lavorando con i loro insegnanti. Creiamo di frequente gruppi di bambini che sono sopravvissuti ai bombardamenti e che reagiscono al trauma in maniera collettiva. Solo alcuni di loro si rivelano particolarmente vulnerabili, fragili o a rischio e su di essi si concentrano le attenzioni degli specialisti. Pensate che per uno di questi progetti abbiamo persino ricevuto un premio da parte di un’associazione di psichiatri del mondo arabo. Era un’iniziativa volta ad addestrare infermieri e medici che operano nei Pronto Soccorso a Gaza. Spesso quando questo non riesce ci si trova con persone che cercano di mascherare l’accaduto dicendo ad esempio di aver preso troppi analgesici perché avevano un forte mal di testa. Questo per dire che in Palestina ogni luogo può essere adatto a un intervento psicologico. In questo senso rientra anche una sensibilizzazione a livello più ampio: tutte le domeniche mattina faccio una breve trasmissione alla radio, scrivo articoli su un quotidiano per facilitare l’accesso alle conoscenze nel nostro campo cercando di renderle accessibili, con un linguaggio comprensibile che non incuta la soggezione di quello specialistico delle riviste mediche ma che sia comunque rigoroso. Siamo molto orgogliosi di questi interventi in Palestina e, per quanto riguarda me, ritengo più importanti questi articoli di quelli che escono sulle riviste scientifiche su cui pubblico perché non si pongono al di sopra della gente e della loro comprensione ma aiutano a capire quando hanno bisogno di chiedere aiuto, come possono farlo e a chi rivolgersi quando necessario. Abbiamo bisogno di sensibilizzare le persone rispetto ai problemi di salute mentale e renderle più responsabili rispetto a se stessi.
Per venire al genere, va detto che questo viene spesso trasformato in un’arma. L’occupazione non fa differenza tra uomini, donne e bambini. Beneduce parlava prima di una politica di unchilding mirata a privare i bambini della loro dimensione di infanzia, a non riconoscere il loro essere tali. La guerra che viene condotta sotto un’occupazione non è contro un genere specifico ma contro la società civile in generale, che viene presa di mira in modo indiscriminato. Le donne sono chiamate in causa su determinati argomenti come il tema della maternità a causa della loro fertilità. Quando vengono usate espressioni quali ‘bomba demografica’ ci si riferisce al grembo delle donne palestinesi come un’arma: una ministra del governo israeliano in un discorso all’esercito nel 2014 ha detto: ‘prendete di mira le donne e i bambini perché sono serpenti e piccoli serpenti’. C’è una disumanizzazione tale che gli occupanti vedono nelle donne una minaccia in quanto fonte di produttività di futuri nemici: la fertilità non è forza generatrice ma fabbrica di terrorismo con una mentalità coloniale! E in una terra che l’occupante desidera vuota questo le rende dei bersagli. Anche il portavoce dell’esercito israeliano si era rivolto in modo provocatorio alle donne palestinesi che erano scese in strada per protesta, cercando di istillare una colpa negli uomini che avevano permesso loro di manifestare perdendo così il loro pudore e la loro femminilità, una disgrazia per quelli che le avevano sposate. Dichiarazioni che giocano sulle sensibilità culturali per impedire alle donne di divenire agenti attivi di cambiamento, per neutralizzarle. Parlo anche di questo nei miei libri: c’è un disegno preciso anche nel corso degli interrogatori delle donne in carcere in detenzione amministrativa che mira a suscitare un senso di colpa per aver lasciato i figli e i mariti a casa, e magari questi si cercheranno un’altra moglie visto che loro non si sono dimostrate degne. Mi sono occupata di un gruppo di supporto legale a donne ex-prigioniere ed ex-detenute che mi hanno raccontato tutte storie simili a questa che sto riferendo.
Per quello che concerne la fede, è un aspetto centrale per il benessere e la salute mentale. È anche una componente chiave per la decisione di continuare a resistere. Ed è anche strettamente collegata al territorio. Ho incontrato dei gruppi di donne che avevano perso i loro bambini o dei familiari a causa della loro lotta politica. Alcune di loro avevano trovato nella fede in un’altra vita dopo quella terrena una possibilità di sopportare il dolore. Non importa se questa dimensione sia reale o meno: fatto sta che avevano visto nella speranza di rincontrare i loro figli in un aldilà una forza che qualsiasi intervento terapeutico non sarebbe stato in grado di fornire. Non bisogna sottostimare l’importanza della fede nel supporto al dolore.
Giampietro Loggi: Leggendo i testi di Samah mi sono fatto delle domande a proposito della perdita dei padri. Mi sembra che sia un tema che tocca anche noi. So che c’è un leader palestinese in prigione da tanti anni, Marwan Barghouti. Mi piacerebbe sapere se è una persona riconosciuta e se in un certo senso potrebbe diventare un Mandela palestinese?
Samah Jabr: Per quello che riguarda i padri dico che questa non è una speciale caratteristica della società palestinese ma il risultato dell’attacco al nostro popolo, a due livelli: gli uomini vengono presi di mira per cercare di privarli del loro status di protettori, di renderli inermi. È quanto succede quando le case vengono invase nel cuore della notte per arrestare magari un minore: gli uomini sanno che se intervenissero sarebbero uccisi. Ho sentito tante storie come questa in cui si genera un senso di impotenza, l’impossibilità a fare qualcosa in quelle circostanze. A un altro livello viene attaccata la leadership, sia in famiglia che quella politica, con lo scopo di lasciare un vuoto, un’assenza, lasciare vacante a livello anche simbolico il posto del padre. Questo avviene anche attraverso la detenzione politica. E spiega anche il fenomeno politico e sociale per cui i giovani palestinesi, consapevoli di questo, sono in prima linea, tanto che sono nati movimenti che hanno reagito combattendo quasi per sentirsi sollevati dall’assenza di padri: penso alla prima Intifada nei primi anni ‘80, o alle rivolte del 2014 e 2015, in seguito al primo attacco a Gaza, quando ragazzini di 13, 14 anni armati di coltello, combattevano contro soldati armati fino ai denti. Non voglio dire che sono d’accordo ma leggo il fenomeno e ne identifico le cause politiche e sociologiche.
A chi chiede poi chi possa essere un leader della pacificazione, un Mandela palestinese, dico che in Palestina non ci mancano i leader, qualcuno buono, qualcuno cattivo, ma ora il problema non è la leadership. Mandela divenne Mandela quando cadde l’Apartheid; un leader palestinese che possa lavorare per la pace ci potrà essere quando cadrà l’occupazione. Noi ora abbiamo bisogno di giustizia prima ancora che di pace e questa, una vera pace, potrà avvenire solo quando si sarà rispristinata una giustizia. La priorità, adesso, e ripristinare l’aiuto umanitario e rinforzare la connessione tra i palestinesi e il loro territorio perché le strategie in atto sono due: uccidere le persone oppure creare le condizioni perché vengano espulse o scappino dalla terra di Palestina. Ribadisco, la priorità per me è contrastare questi fenomeni. Pace e giustizia non possono essere separate: gli israeliani vogliono l’occupazione e la pace, i palestinesi cercano la fine dell’occupazione e solo allora si potrà parlare di pace.
Antonello D’Elia: i interpellano e sfidano: ad uscire da pensieri e pregiudizi che ci fanno procedere in automatico e ci impediscono di comprendere. Ritengo che questo sia un contributo prezioso per coltivare un pensiero critico, che dubita, si interroga anziché procedere spedito verso conclusioni affrettate e superficiali: è la scossa più forte che ricevo da questo incontro. Mi sembra quasi fuori luogo comparare le condizioni di emergenza totale di cui ci parla Samah con le nostre emergenze relative alla salute mentale, eppure anche queste sono una realtà. Le persone stanno male, i giovani stanno male, il servizio sanitario è impoverito e cerca di rispondere con strumenti vecchi e standardizzati a sofferenze che si mostrano a più livelli. La proposta di pratiche collettive e di una partecipazione comunitaria al bene salute ci sollecita a riflettere su come emergenza e precarietà spingano verso un ripristino di azioni semplici, condivise, non immediatamente tecniche o specialistiche che attivino risorse in risposta all’ammalare. L’esposizione alla sofferenza richiede consapevolezza e coinvolgimento perché si attivino risorse e protezione per trattare e prevenire la concretizzazione e all’irrigidimento della sofferenza in patologia individuale conclamata. Una storia che in Italia abbiamo conosciuto: abbiamo prodotto una legge, anzi due, considerando anche quella sulla salute in generale non solo psichiatrica che nascevano proprio da questa esigenza partecipativa. Certo i tempi sono cambiati e sembra che stiamo perdendo quello che avevamo conquistato ma l’esempio che ci porti, Samah, è illuminante. La soluzione non primariamente individualizzata è una scelta da fare non solo perché c’è poco, poco personale, pochi soldi ma perché quella di responsabilizzare e coinvolgere le persone rispetto alla propria salute è una scelta politica di fondo. Anche se è terribile pensare che venga rinforzata dal drammatico laboratorio palestinese costringendoci a guardare al nostro passato recente che se non abbiamo dimenticato è a rischio di oblio.
Antonello D’Elia: Volevo porti ancora due domande specifiche. La prima riguarda i media e la comunicazione: circa un anno fa l’opinione pubblica occidentale è apparsa scossa dal caso dei neonati prematuri a rischio di vita nell’ospedale distrutto di Al Shifa. Più ancora che dal massacro quotidiano in corso. Mi è parso che il fatto, per quanto drammatico, rappresentasse una realtà condizionata dai media in un senso pietistico. Poi volevo che ci dicessi qualcosa sulle conseguenze a lungo termine sulla salute mentale delle persone per quanto sta avvenendo oggi, nei termini di quell’odio e della vendetta che abbiamo evocato nel titolo.
Samah Jabr: Temo che il racconto dei neonati di Al Shifa sia conseguenza del razzismo nei confronti dei palestinesi. Come se il messaggio fosse:‘Salviamo i neonati perché loro non sono in gradi di proteggere i loro bambini’. Il fatto è che tutti i palestinesi hanno bisogno di essere protetti. Siamo una comunità sotto occupazione, chiusa dentro i suoi confini che sta subendo un genocidio dopo settant’anni di assedio. Concentrare l’attenzione su un caso umanitario e non considerare tutto quello che sta accadendo a un’intera popolazione è fuorviante. In ogni caso abbiamo bisogno di sentire che la nostra voce arrivi e che nel mondo si sappia esattamente quello che sta avvenendo. È importante per noi, comunque, che il mondo sappia.
Riguardo alla salute mentale, certamente i fatti che stanno accadendo dopo il 7 ottobre 2023 dureranno a lungo. Tuttavia, prima di quella data a Gaza avevamo già un 70% di disoccupazione e tra il 50 e il 60% di persone in condizioni di povertà con enormi bisogni di salute. Un luogo senza orizzonti in cui le persone non potevano uscire per studiare, per farsi curare, per lavorare, tranne poche eccezioni. Gaza è uno dei posti del mondo con la più alta densità abitativa: non era un posto sano già prima che iniziassero l’occupazione militare e il genocidio. Ora questo campo di concentramento a cielo aperto che è diventata la Striscia di Gaza si sta trasformando in un gigantesco cimitero in cui le persone sono sepolte sotto le macerie delle loro stesse case. Mancano cibo, medicine, acqua potabile, elettricità, tutte le condizioni per vivere sono disastrose.
Quello che avviene ora avrà conseguenze per generazioni. Anche perché la comunità internazionale non riconosce quello che sta avvenendo, in assenza di empatia con la sorte dei palestinesi. Il ruolo di una terza parte è importante e se viene meno le persone sono abbandonate alla loro sofferenza. Ci vorranno anni per ripristinare dei servizi decorosi. La Banca Mondiale aveva a suo tempo aveva pubblicato uno studio in cui si dichiarava che il 70% della popolazione di Gaza soffriva di depressione. Save the Children ha pubblicato due anni fa un lavoro in cui si sostiene che l’80% dei minori ha bisogno di servizi di salute mentale. Ero stata chiamata a lavorare per rinforzare la capacità del personale dei servizi di salute mentale a Gaza. Ora sta avvenendo che anche quelli che dovrebbero aiutare gli altri per professione sono esposti in prima persona, la loro vita e quella dei loro familiari è a rischio ogni giorno. Ci vorranno generazioni di palestinesi per riprendersi da questo trauma gigantesco.
Filippo Cantalice: Nonostante tutto le parole di Samah ci hanno fatto capire la forza di una comunità che pure in assenza di luoghi si ricrea e con la partecipazione comunitaria ricostruisce un tessuto di solidarietà che finisce per essere una speranza possibile in un momento infernale. Della mia esperienza a Bari fanno parte anche alcune visite ai CPR, i centri di detenzione e rimpatrio per i migranti. È stato possibile entrare come Psichiatria Democratica al seguito di parlamentari in quanto sanitari facenti parte di un gruppo di lavoro per i rifugiati. Ci siamo scontrati con numerose barriere burocratiche che avevano lo scopo di non permetterci l’accesso, fino a che è stato interpellato il questore della città che si è lasciato convincere dal deputato. Quello che abbiamo visto è orribile, una condizione da lager in cui si combinano l’orrore del carcere e quello del manicomio. Ci siamo confrontati con gli operatori della cooperativa che gestisce il CPR e all’uscita abbiamo cercato di lavorare per sensibilizzare la cittadinanza. Dei miei ricordi fa parte anche quello di un infermiere palestinese: è una storia di qualche anno fa, tanto per sottolineare come quello che avviene oggi in maniera estrema è già avvenuto nel tempo. Lui aveva una scheggia di bomba nell’addome, frutto di un attacco dell’esercito israeliano e aveva chiesto la protezione internazionale. Mi raccontò che in Palestina aveva lavorato con i giovani anche attraverso iniziative sportive, un po’ come ci ha detto Samah. Lo conobbi accompagnandolo nella giungla burocratica dei permessi e avevo prodotto la certificazione necessaria per la commissione utilizzando una diagnosi adeguata alla sua richiesta, consapevole che con l’arma della psichiatria avrei potuto contribuire alla sua vittimizzazione. Sapevo che soffriva ma rifiutò con grande dignità l’aiuto di un farmaco che gli avevo offerto: voleva essere lucido per raccontare quello che aveva vissuto e che sapeva. È rimasto per me un esempio di resistenza e di fiducia nella solidarietà piuttosto che nelle soluzioni tecniche.
Maria Nadotti: Non sono una professionista della salute mentale ma una cittadina comune, una traduttrice e un’interprete ma cerco di fare qualcosa in favore della Palestina, per il poco che posso. La specialità nel mio lavoro è fare comunicare le persone, per cui mi chiedo e chiedo:cosa potremmo fare come cittadini per far terminare questo orrore?.
Samah Jabr: Vorrei riprendere il discorso dall’offerta dell’ansiolitico di cui parlava l’ intervento precedente per riflettere in modo più generale su cosa voglia dire somministrare farmaci ai rifugiati. In un mio recente articolo, tradotto in Italia da Maria Nadotti che ha appena parlato, mi soffermo sul particolare dolore degli immigratiche non può essere trattato con gli psicofarmaci e che si manifesta come solstalgia: quando si perde il contatto, la simbiosi tra uomo e la sua terra, gli ansiolitici non sono sufficienti, non funzionano, bisogna provare qualcos’altro. È il contatto con la terra, col suolo d’origine che si è interrotto e la persona avverte anche il danno che è stato inflitto anche alla terra. Per quanto riguarda il cosa fare, rispondo sempre che sta a voi sapere cosa poter fare a partire dalla capacità e dalle personali competenze, dagli interessi, dal calcolo personale del rischio che ciascuno sente di poter affrontare nel momento in cui decide di supportare la causa palestinese, sapendo che ci può essere anche qualcosa da perdere, di poter essere ostracizzati, di avere conseguenze istituzionali. Ma ogni voce che mette al centro la voce della Palestina e la amplifica perché arrivi al maggior numero di persone possibile è importante. Ogni sforzo inteso a ricordare alla gente che quanto avviene là non è solo una crisi umanitaria ma un tema politico e che la combinazione di questi temi è cruciale per tutti è utile. L’intervento umanitario è più facile e meno controverso ma bisogna essere consapevoli che è una situazione politica a determinare quanto succede in Palestina e questa ha a che fare con un più vasto ordine mondiale. Parlare a voce alta di questo vuol dire sfidare il colonialismo, il razzismo, l’islamofobia, l’orientalismo, l’emarginazione non solo manifestare solidarietà.
Antonello D’Elia: Non ci rimane che dirti grazie ancora una volta da parte di tutti noi e di Psichiatria Democratica. Ti promettiamo che cercheremo, ognuno per quel che può, di seguire il tuo invito sapendo che questa non è solo la causa del popolo palestinese ma anche quella della giustizia e quindi anche la nostra.
