Come non disperdere il sacrificio della dott.ssa Capovani

di Antonello D’Elia, Presidente di Psichiatria Democratica

L’aggressione letale a una psichiatra ha turbato tutti e lasciato gli operatori della salute mentale nello sgomento, nella certezza dell’abbandono da parte dalle istituzioni, lasciati in pochi a confrontarsi in prima linea con la sofferenza ma anche con i mali del mondo, esposti a ogni tipo di aggressione o rivendicazione e persino di richieste appropriate senza aver più strumenti di intervento. Era prevedibile che con la tragica morte della dottoressa Capovani e nel clima emotivo generalizzato che si è determinato, si riaprisse il capitolo dei manicomi o, nella variante più contemporanea, delle REMS. Recludere, isolare, mettere al sicuro è lo slogan che puntualmente accompagna i fatti di cronaca nera in cui sono coinvolti pazienti psichiatrici o presunti tali o persone disturbate che commettono reati contro la persona. Il pregiudizio della violenza del folle è sempre disponibile per sostanziare istanze repressive e di restaurazione e per colpire un’opinione pubblica comprensibilmente turbata da episodi cruenti o efferati come nel caso degassassimo di Barbara Capovani. Certa politica non arretra di fronte al lutto e non è interessata ad aprire spazi di riflessione indispensabili a prendere iniziative che possano prevenire, per quanto di umana competenza, episodi come quello di Pisa. Eppure c’è tanto da discutere e molto da proporre. Prima di tutto l’abolizione del vizio totale o parziale di mente ovvero della ridotta o assente capacità di intendere e di volere: gli articoli 88 e 89 del Codice Penale. Il riconoscimento di un vizio mentale fa sì che una persona che abbia commesso un reato possa non esserne ritenuto responsabile del suo operato e che debba, pertanto, essere soggetto a misure di sicurezza a causa della sua pericolosità sociale fino a che questa venga dichiarata terminata dalla psichiatria. Era la via per entrare negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, combinazione infernale del peggio del carcere e del manicomio, chiusi con la legge 81/2015. Ma è anche la strada per accedere al sistema delle REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) le cui porte si sono aperte sia a coloro che hanno commesso reati sia a coloro che sono stati giudicati sia, in via preventiva e cautelare, a coloro che sono in attesa di sentenza. Questo stato di cose, abbinato alla saturazione del sistema carcerario e alle sue carenze, ha fatto sì che una pletora di delinquenti comuni, di abusatori abituali di sostanze, violenti di varia natura per carattere e antisocialità finissero per gravare, affollandolo, il sistema psichiatrico e quello delle REMS che ne fa parte. Ne è derivato un enorme carico di lavoro per gli operatori dei servizi sanitari di salute mentale, in gravissima crisi di personale e di mezzi, chiamati dalla magistratura ad esercitare un’impossibile controllo sociale su persone che sfuggono ai trattamenti dedicati ai pazienti con disturbi psichiatrici, consistenti in farmaci, terapie psicologiche, reinserimento sociale e lavorativo, riabilitazione. Non tutti coloro che commettono reati sono folli o inconsapevoli. Ci sono persone, seppure disturbate, per le quali non esistono diagnosi psichiatriche che li rendano soggetti alle cure con cui sono trattati i malati. Per costoro la via del carcere, se riconosciuti colpevoli, rimane quella adeguata. Sarà nelle articolazioni psichiatriche carcerarie che riceveranno i trattamenti necessari e potranno scontare la pena proporzionata a quanto commesso, nel pieno rispetto delle loro condizioni di salute.
Questa è una battaglia di civiltà e di rispetto dei diritti. Questa è una prospettiva di riforma e di prevenzione di una deriva sociale nei cui confronti la risposta manicomiale, invocata da alcuni, oltre che bocciata dalla storia si rivela impotente e dannosa.

www.psichiatriademocratica.org

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