Forum 180. Antonello d’Elia: “Legge 180 e legge 833, una convivenza difficile”

Da un lato il servizio della 180, nato dalla chiusura dei manicomi, dall’altro quello della 833 nato dalla territorializzazione della sanità; da un lato il servizio che risponde all’utenza grave con le prassi della deistituzionalizzazione, dall’altro quello che risponde alla complessità dei bisogni di una popolazione secondo un modello di stampo medico-sanitario riducendoli a offerta di prestazioni specialistiche. Una convivenza non facile sotto gli stessi tetti di prassi, per tempi, modalità e finalità differenti

 

di Antonello d’Elia

Viene da scomodare le figure retoriche della lingua italiana per farsi una ragione dei tanti pronunciamenti sulla legge 180 ai quali QS, con questo suo forum, concede uno spazio dedicato.  Al netto della attuale contingenza politica e del significato che può assumere oggi un dibattito su quella legge mi pare si continui nell’uso della ‘parte per il tutto’ quando la si invoca per farle dire anche quello che non dice continuando ad attribuirle meriti o colpe quanto meno sproporzionati al suo dettato.

Che, mi si perdoni la pedanteria, riguarda, nell’ordine in cui sono scritti:

  1.  l’eccezionalità dei trattamenti obbligatori e la regolamentazione degli stessi;
  2.  le strutture ospedaliere pubbliche funzionalmente collegate, in forma dipartimentale con gli altri servizi e presìdi psichiatrici sanitari pubblici territoriali”;
  3.  la chiusura degli ospedali psichiatrici e il passaggio dalle Province alle Regioni dell’assistenza psichiatrica;
  4.  la depenalizzazione di una condizione che riguarda la sanità e ne interrompe lo storico nesso con la giustizia. Non è poco, anzi, una rivoluzione.

Ma, per farla breve, le critiche che ancora durano a 44 anni da allora, non mi pare tocchino, tranne qualche coriacea eccezione, nessuno dei punti enunciati dalla legge e nemmeno la sua posizione rispetto ai diritti dei malati. 

Ad essere sotto accusa è un’epoca, un alone di significati associati a una politicizzazione della società e della psichiatria, l’insofferenza per un passato prossimo ma già rifiutato come intriso della retorica del ‘mondo di ieri’, un approccio alla salute mentale non confinato alla dimensione biomedica della sofferenza.

Il pensiero critico diventa ideologia (con un’accezione distorta del termine), l’antinosografismo e la messa tra parentesi della malattia mentale invece che posizioni radicate anche in una robusta tradizione filosofica sono agli occhi dei critici segno di sciatteria, improvvisazione e disordine. Le pratiche soggettivanti mirate all’emancipazione e alla inclusione sociale del malato (e dei suoi familiari aggiungerei) si volgono in una surrettizia minaccia alla ‘scientificità’ di una disciplina medica che riconduce all’individuo i suoi disturbi e i trattamenti del caso. Per racchiudere il tutto in un termine, diventato negli anni sospetto, una critica del ‘sociale’.

Merito di questo forum potrebbe essere quello di condensare e analizzare più di quattro decenni di riflessioni e posizioni non certo per un esercizio intellettuale (anche se un poco di cultura non guasterebbe visto che persino la psicopatologia ormai non gode di buona fama) ma per porre mano a una situazione di crisi, di disagio, di confusione in cui versa la psichiatria, patendo tutti i mali della sanità pubblica con un aggravante storica significativa.

E, si spera, anche di aiutare a far giustizia di una sequela di formule pregiudiziali come quelle di chi dice di parlare a nome del progresso e della scienza, poco sapendo dell’uno e dell’altra, o di chi cita l’ipotetica antipsichiatria italiana, mai esistita, visto che la riforma ha negato la vecchia istituzione psichiatrica sancendone la fine e proponendone una nuova ma non certo regolamentandone le pratiche che non spettavano né spettano a una legge dello stato.

Con una formula ultra semplificativa, direi che il destino delle pratiche e dei saperi che hanno preceduto e seguito quel 13 maggio del 1978, si è giocato nei sei mesi che hanno separato quella data dall’inclusione della 180 nella legge istitutiva del Sistema Sanitario Nazionale.

L’attuale configurazione dei servizi condensa, in un’unità di luoghi, i CSM e la storia dell’evoluzione ed involuzione della psichiatria italiana negli ormai lunghi anni del post-riforma.

Da un lato il servizio della 180, nato dalla chiusura dei manicomi, dall’altro quello della 833 nato dalla territorializzazione della sanità; da un lato il servizio che risponde all’utenza grave con le prassi della deistituzionalizzazione, dall’altro quello che risponde alla complessità dei bisogni di una popolazione secondo un modello di stampo medico-sanitario riducendoli a offerta di prestazioni specialistiche. Una convivenza non facile sotto gli stessi tetti di prassi, per tempi, modalità e finalità differenti.

L’uscita della psichiatria dalla violenta reclusione manicomiale e il suo ingresso nella sanità pubblica ha senza dubbio collocato i temi della sofferenza mentale nello spazio fisico e simbolico della cura.

Tuttavia, l’assimilazione della psichiatria alle altre discipline mediche, che è diventata scontata con il processo di aziendalizzazione, ha schiacciato il patrimonio accumulato negli anni, non senza errori evitabili e inevitabili, e lo ha reso sempre più invisibile,  non descrivibile, non misurabile, non valutabile, quindi, in una logica economicista, non esistente.

Non aver difeso la natura sociale dell’agire psichiatrico istituzionale né aver provveduto ad agganciare con adeguati atti normativi i complessi processi di cura al contesto sociale ha creato le premesse per gli esiti a cui assistiamo. La famigerata integrazione socio-sanitaria è ben presto divenuta uno slogan, i redivivi determinanti sociali della malattia mentale, da poco restituiti a dignità scientifica, una sciccheria per psichiatri esterofili che cinguettano con quegli snob dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Ad oggi ci troviamo di fronte a quelle che potrei definire come tre posizioni dominanti:

  • una posizione di conservazione nostalgica e intrisa di ‘risentimento’ che interpreta il presente in termini apocalittici come degenerazione di un mondo che sfugge e che rievoca la lotta al manicomio e la mancata attuazione della legge come cause della degenerazione di un progetto;
  • una posizione di aggiornamento che insegue i tempi ed è convinta di adeguarsi ai mutamenti in corso nella società o ad alcuni passi avanti nella ricerca scientifica prendendo le distanze da modalità di pensiero e da pratiche considerate superate e facendo propria una tendenza al conformismo, al compromesso che pone in discussione nei fatti le conquiste acquisite in precedenza;
  • una posizione critica di ammodernamento, che non rinuncia al confronto con le modifiche della società, prende atto di alcuni dei mutamenti della scena contemporanea ma cerca di conservare l’essenziale, scegliendo gli indirizzi di fondo da dare e rinunciando a quanto inevitabilmente consumato dalla storia.

Ci si potrebbe dilungare su ciascuna delle tre opzioni, ma, per brevità va detto che posizioni riferite a questi atteggiamenti possono convivere nelle stesse èquipe di lavoro (se sopravvissute alla desertificazione di personale), e persino nello stesso operatore non senza causare sofferenza derivante da conflitti interiori o da dinieghi scissi.

Una condizione con serie conseguenze reali e attuali. Temo che non a tutti sia evidente che Psichiatria Democratica si identifica, e non da ieri, con l’ultima opzione.

Per fare qualche esempio di dialogo tra novità ed invarianze (termine caro a Cavicchi che uso in altro modo):

  1. la non mutata validità della critica all’uso retorico e strumentale della scienza;
  2. la necessaria centralità della relazione nei luoghi e nei processi di cura;
  3. le azioni mirate ad evitare le nuove cronicità iatrogene, legate alla mancanza di continuità relazionale e al sistematico ricorso al ricovero (in genere presso strutture esterne al SSN il cui accreditamento è garanzia solo di correttezza burocratica ma non di qualità terapeutica);
  4. il valore della psicoterapia non quale tecnica ma come ruolo del senso e dell’ascolto nei processi di presa in carico di équipe;
  5. la difesa contro la medicalizzazione della vita quotidiana e l’acquisizione all’area medico sanitaria della riabilitazione e dell’inclusione lavorativa sottoposte a valutazione, indicazioni e controindicazioni, risultati, secondo un modello a cavallo tra quello biomedico di assessment e l’efficienza economicista;
  6. il contrasto alle inedite forme di istituzionalizzazione che negano, al di là dei proclami, reale autonomia e rispetto della soggettività delle persone;
  7. la ricerca di alternative allo scenario ‘difensivo’ acuito dalla conflittualità e microconflittualità sociale e istituzionale che orienta l’operato rispetto al pericolo di cadere in configurazioni di reato. Ma su tanti altri temi si potrà e dovrà discutere.

Che non si tratti infatti di un esercizio di stile basti dare uno sguardo ai Piani Regionali di azioni per la Salute Mentale che, a prescindere dai colori politici,  ben interpretano, quelle scelte di compromesso che, in nome di una razionalità superiore, finiscono per intaccare non la legge 180 ma il patrimonio di saperi, culture e pratiche che l’hanno seguita.

Una strada peraltro praticata in tutta Italia, persino nell’iconica Trieste, grazie alle autonomie regionali e alla gestione politico-performativa aziendale della sanità e alla congerie di decreti, leggi regionali e circolari che senza toccare il dettato di legge la indirizzano verso altri scenari organizzativi, di senso e operativi.

La mancanza di un’idea di salute, di riflessione sulle difficoltà nella crescita per quanto riguarda l’età evolutiva, di consapevolezza delle dinamiche complesse fra trasformazione e cronicità per i pazienti e le loro famiglie, è oscurata da un pensiero organizzativo che nulla eredita dalle azioni sociali, dalla psicologia di comunità, dalla clinica nella sua accezione migliore.

Nel momento in cui è caduta in crisi un’idea di società composta, in cui la riparazione è parte di una visione condivisa, di scelte di politica sociale e quindi di una progettualità collettiva, si incrina anche un modello di intervento psichiatrico. E il mantra usurato del rapporto pubblico/privato si rivela solo il paravento per interessi lontani da quelli della collettività garantiti dal SSN.

Siamo allora costretti, ci piaccia o no, a riconsiderare il nesso profondo tra psichiatria e società, non per riesumare un facile sociologismo ma per approfondire il legame che riporta le sue pratiche e i suoi fondamenti teorici al contesto sociale.

Non possiamo dimenticare, infatti, che teorie e pratiche psichiatriche hanno tra loro un rapporto complesso e che qualsiasi ipotesi sul funzionamento della mente, dell’uomo e dei suoi comportamenti individuali e sociali quando si traduce in pratica disciplinare deve fare i conti con valutazioni e orientamenti che sono scientifici, ma anche antropologici, filosofici, etici, economici, politici.

Nell’arco di meno di quarant’anni abbiamo assistito ad uno spostamento progressivo da un ruolo custodialistico e da una prassi concentrazionaria  (il manicomio) ad una funzione  curativa e riparativa ancorata al sociale (la comunità, il territorio), al prevalere del paradigma medico/scientifico (l’ospedale, i farmaci), in una sequenza che non è indifferente rispetto alle scelte di come e dove fare psichiatria e quale orientamento assumere rispetto alla dimensione della cura.

Fonte: Quotidiano Sanità

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