Giovani e disagio mentale: resilienza o ribellione?

Foto di John Hain da Pixabay

Durante lo scorso anno scolastico e accademico diversi casi di cronaca, tra cui due drammatici suicidi, hanno imposto nel dibattito politico e sociale il tema del malessere psicologico che riguarda i giovani e gli adolescenti, studenti medi e universitari. Giornali e media si sono affrettati a lanciare una campagna in cui giovani, adolescenti e bambini sono stati descritti come fragili, ipersensibili, incapaci di affrontare il mondo. In questo articolo offriamo la nostra analisi di classe e una prospettiva rivoluzionaria.

Durante lo scorso anno scolastico e accademico diversi casi di cronaca, tra cui due drammatici suicidi, hanno imposto nel dibattito politico e sociale il tema del malessere psicologico che riguarda i giovani e gli adolescenti, studenti medi e universitari. Senza avere alcun dubbio, né pensare ad un relativo approfondimento, giornali e media si sono affrettati a lanciare una campagna in cui giovani, adolescenti e bambini sono stati descritti come fragili, ipersensibili, incapaci di affrontare il mondo.
Il presidente dell’Ordine degli Psicologi, David Lazzari, prendendo le mosse dalla giusta osservazione riguardo al drammatico sotto-dimensionamento dei servizi pubblici per la salute mentale, ha dichiarato che “bisogna fornire gli strumenti per trattare terapeuticamente il disagio nei giovani, ma soprattutto per aumentare la loro capacità di resilienza”. Da questo deduciamo che secondo il presidente degli psicologi il disagio ha sempre bisogno di una risposta clinica e terapeutica, facendo quindi coincidere il disagio con la patologia, e che obiettivo di tale trattamento deve essere quello di promuovere nei giovani la “resilienza”, ovvero la capacità di adattarsi ed accettare le caratteristiche dell’attuale contesto della società capitalista, per quanto disastrosa e traumatica questa possa essere.

Un andamento lungo almeno un decennio

D’altro canto, in nessuno degli innumerevoli discorsi dei vari esperti troviamo un accenno, sia pure timido, all’impatto di possibili cause sociali sistemiche sulla salute mentale dei giovani. Nella migliore delle ipotesi, viene eseguita una operazione di totale semplificazione e riduzione per cui il Covid e le sue conseguenze sono stati i fattori principali che hanno favorito la diffusione del disagio. Indubbiamente, l’emergenza sanitaria ha avuto ricadute importanti sul benessere psicofisico di tutta la popolazione.
Non si può trascurare il fatto che, sia pure in modo chiaramente diverso, a seconda delle differenti età, bambini, adolescenti e giovani abbiano dovuto subire un arresto significativo dei processi di esplorazione personale, corporea e relazionale. Tuttavia, l’enfasi sul ruolo giocato dalla pandemia è molto discutibile e certamente rappresenta una chiave di lettura unilaterale, buona solamente a giustificare le misure del tutto circoscritte e persino dannose che sono state prese dai governi Draghi e Meloni attraverso il cosiddetto “bonus psicologo”. Infatti, se il disagio è l’esito di un evento eccezionale e circostanziato, la risposta non può che essere altrettanto sporadica. Inutile intervenire sul servizio pubblico, rafforzandolo. Tanto meno avrebbe senso sforzarsi di uscire fuori dalla logica meramente clinica per cercare di affrontare i problemi sociali che si trovano alla radice del fenomeno.
A dispetto della narrazione dominante, tuttavia, i dati dimostrano che l’effetto della pandemia, che pure innegabilmente c’è stato, non ha prodotto un dato significativamente diverso dal trend che da ormai circa un decennio si sta osservando nei servizi di salute mentale per i bambini e la giovane età, ma ha semplicemente continuato a scavare approfondendo lo stesso solco. Nel dibattito deve quindi essere introdotto un fondamentale elemento di equilibrio: il Covid e l’emergenza sanitaria che lo ha accompagnato non hanno una rilevanza assoluta rispetto al problema, ma sono solo un fattore relativo.
Nel 2022 sono 1 milione e 890mila i bambini, gli adolescenti e i giovani fino ai 25 anni che in Italia risultano essere presi in carico dai servizi di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (NPIA). Un dato doppio a quello che si registrava nel 2012, anno in cui gli accessi ai servizi di NPIA, anche semplicemente per una visita di valutazione, è iniziato progressivamente ad aumentare, al ritmo di un incremento medio del 9% annuo. Un trend che è 4 volte superiore a quello che si registra nei servizi di salute mentale per adulti e di 8 volte superiore a quello dei servizi per le dipendenze patologiche. Già nel 2017 le patologie neuropsichiatriche erano la causa principale di disabilità nei giovani e il suicidio diventava la seconda causa di morte tra i 15 e i 29 anni. A partire dal 2016 gli accessi al Pronto Soccorso per emergenze psichiatriche tra gli adolescenti sono aumentati mediamente del 10% ogni anno e i ricoveri sono incrementati del 14%. Osservando i dati post-pandemia (2020-2022) notiamo che la crescita dei ricoveri è sostanzialmente stabile, aumentando del 15% rispetto all’anno precedente, mentre aumentano del 30% gli atti di autolesionismo e drammaticamente triplicano i disturbi del comportamento alimentare (anoressia e bulimia).
La pandemia quindi è stata il propellente attraverso il quale è stato possibile far emergere un malessere e una sofferenza che tuttavia andava accumulandosi da almeno un decennio.

Lo smantellamento dei servizi di salute mentale

L’aumento implacabile del fenomeno è andato di pari passo con l’azione di progressivo smantellamento dei servizi sanitari. Negli ospedali di tutta Italia sono solo 322 i posti letti destinati alla salute mentale per l’infanzia, l’adolescenza e la giovane età a fronte di un fabbisogno stimato in almeno 800 posti. Ad aggravare il dato va inoltre considerato che solo 20 di questi 322 posti letto sono occupati dalle patologie neuropsichiatriche perché il resto viene inevitabilmente coperto dalle emergenze neurologiche, in particolare dalle epilessie. Il risultato è che troppo spesso minorenni e giovani adolescenti vengono ricoverati nei reparti psichiatrici per adulti, una ulteriore esperienza traumatica. Quando poi questi ragazzi vengono dimessi dagli ospedali e si trovano di fronte alla necessità di fare percorsi terapeutici e riabilitativi sul territorio si trovano di fronte ad una rete dei servizi fatta completamente a pezzi. Dei quasi 2 milioni di giovani adolescenti e dei bambini che nel 2022 hanno avuto accesso ai servizi territoriali di Neuropsichiatria, solo in 300 mila sono infatti riusciti a trovare una risposta terapeutica, riabilitativa o socio-educativa, non sempre appropriata, molto spesso del tutto parziale. L’organico messo a disposizione della rete della salute mentale territoriale (Neuropsichiatria Infanzia e Adolescenza, Centri di Salute Mentale, Sert) è infatti molto al di sotto del minimo previsto per legge, ovvero 67 operatori ogni 100.000 abitanti. Attualmente, sono mediante presenti ogni 100.000 abitanti: 10 medici, 4 psicologi, 40 fra infermieri, tecnici della riabilitazione, OSS, educatori e assistenti sociali, per un totale di 54 operatori per 100.000 abitanti.
Questo significa che, complessivamente, la rete territoriale per la salute mentale lavora sotto organico di circa 8.000 operatori. Inoltre, se l’analisi viene condotta regione per regione, emergono situazioni regionali di totale collasso dei servizi. L’Umbria ha meno di 5 medici per 100.000 abitanti; Marche e Campania non riescono a garantire neppure uno psicologo per 100.000 abitanti; Molise, Abruzzo e Puglia hanno meno di 20 operatori del comparto per 100.000 abitanti.
Questi sono i risultati di finanziamenti statali alla Salute Mentale che corrispondo ad un misero 2,75% del già misero Fondo Sanitario Nazionale, a fronte di un obiettivo dichiarato in sede europea del 10%. Stiamo parlando dello 0,2% del PIL nazionale. Un dato che colloca l’Italia, negli anni ’70 e ’80 considerata un modello internazionale per la salute mentale di comunità, agli ultimi posti per spesa pubblica dedicata al settore fra i paesi OCSE, prima solo di Estonia e Cile.
La conseguenza di tutto questo è che il servizio pubblico eroga quasi esclusivamente attività diagnostiche e di breve consulenza, non riuscendo neppure a garantire gli standard dei livelli minimi di assistenza stabiliti a livello ministeriale, che sono già ben poca cosa rispetto a quanto sarebbe necessario per affermare la concezione della salute mentale territoriale che con la legge 180 si era imposta nel 1978 come risultato delle lotte sociali per la chiusura dei manicomi. Oggi ad affermarsi è invece un nuovo riduzionismo biomedico che ruota non più attorno al manicomio, ma attorno allo psicofarmaco. Un dato su tutti? In Italia 830mila sono gli utenti adulti in carico ai servizi pubblici a fronte di 3 milioni e 850mila persone che assumono farmaci antidepressivi. Ovvero, il numero di persone che utilizzano esclusivamente un farmaco antidepressivo per affrontare un disturbo dell’umore è di 4 volte e mezzo superiore al numero di persone che riescono ad accedere ad un programma completo di cura ed assistenza.
Di fronte a questo scenario di progressivo definanziamento e smantellamento, la misura sbandierata dagli ultimi governi Draghi e Meloni del cosiddetto “bonus psicologo” ha un valore puramente propagandistico. Questo per tanti motivi. Innanzitutto ha una caratteristica emergenziale e non risolve nessuno dei problemi sul campo che riguardano i servizi per la salute mentale mentre la grande maggioranza delle famiglie proletarie alle prese con il disagio psicologico continuano ad essere escluse dalla possibilità di ottenere cure e assistenza. Inoltre è una misura corporativa perché ad avvantaggiarsene non è stato il servizio pubblico, la rete socio-sanitaria dei servizi per la salute mentale, ma la categoria professionale privata degli psicologi. Ma soprattutto c’è un aspetto importante che troppo spesso viene dimenticato nel dibattito pubblico: il disagio psicologico non è riducibile alla malattia ed esso per essere affrontato non deve prevedere solo la terapia o un certo numero di prestazioni tecniche specialistiche. Al contrario, spesso il disagio psicologico non ha neppure bisogno di una risposta terapeutica in senso stretto. Non a caso secondo quanto affermato nel quadro legislativo vigente in Italia, la tanto celebrata quanto inapplicata legge 180 (anche detta Legge Basaglia), il benessere/disagio psicologico è considerato composto di tante diverse dimensioni, che nella persona sofferente (sofferente, non necessariamente malata) possono presentarsi aggregate in modo diverso: sociale, lavorativa, relazionale, oltre che psicologica ed eventualmente biomedica.
Sempre la legge 180 prevede che siano proprio i dipartimenti di salute mentale quegli spazi con equipe multiprofessionali che realizzano la presa in carico globale delle persone e dei minori con sofferenza e disagio psicologico, progettando e accompagnandole in percorsi di inclusione sociale e lavorativa e di prevenzione della dispersione scolastica e dei fenomeni di marginalità sociale. Una rete pubblica di servizi per la salute mentale, così come pensata nella riforma del 1978, dovrebbe essere un sistema di presidi sociali e sanitari capillari sul territorio dove la psicoterapia e lo psicofarmaco sono solo eventualmente ausiliari a progetti integrati che non sono esclusivamente clinici, ma soprattutto di riabilitazione psico-sociale, educativi, di sostegno all’inserimento scolastico e lavorativo, perché tutelare la salute mentale significa innanzitutto prevenzione e solo in via residuale intervento medico-sanitario specialistico. Un compito totalmente rimasto sulla carta, mentre ha preso sempre più piede la tendenza a moltiplicare le diagnosi e a medicalizzare la sofferenza.

Il boom delle diagnosi

In questo scenario, non può passare sottotraccia l’aumento non solo degli accessi ai servizi psichiatrici, dei ricoveri e del disagio psicologico nella sua accezione più ampia, come finora è stato discusso, ma di vere e proprie diagnosi di patologie nella popolazione giovanile ed infantile, in un modo che si può definire indubbiamente sproporzionato, con tassi di crescita non paragonabili ad alcun altro fenomeno epidemiologico in sanità. E’ il caso per esempio dei cosiddetti “Disturbi della Condotta”, categoria diagnostica che già nel nome contiene un orientamento a giudicare patologico un qualsiasi eccesso di comportamento fuori dalla norma accettabile. In Emilia Romagna nel corso dell’ultimo decennio si è assistito ad un sostanziale raddoppio di questa diagnosi che è passata da un tasso di prevalenza, ovvero di presenza, nella popolazione in età 0-18 anni del 2,1% nel 2010 all’attuale 4,7%, con un sbalorditivo 17,1% tra i minori stranieri non accompagnati. Si tratta di diagnosi psicologiche che riguardano stati emotivi o comportamentali che nella stragrande maggioranza dei casi prevedono una certificazione di disabilità nei confronti di ragazzi e bambini il cui grado di adesione alla vita scolastica è molto basso. E’ infatti nell’incontro con l’istituzione scolastica che ha inizio il processo che porta alla definizione patologica di giovani e bambini di cui spesso si perde il senso reale delle loro difficoltà, che tranne che in pochi eccezionali casi, non sono mai cognitive, neuropsicologiche o genetiche, ma affondano le radici in contesti ambientali sfavorevoli, in famiglie economicamente precarie e/o genitori trascuranti o poco attenti perché in forte difficoltà personale.
E’ verosimile pensare che l’intreccio tra l’aumento di famiglie in difficoltà negli ultimi 15 anni, con l’aggravarsi della crisi dell’economia capitalista, e il progressivo indebolimento delle risorse professionali e materiali della scuola, abbia portato a favorire il ricorso alla “patologizzazione dello studente”. La diagnosi e la certificazione forzata di una patologia sono infatti diventate uno strumento utile per trovare le risorse necessarie alla gestione dei ragazzi più difficili, grazie alla possibilità di immettere nel sistema scolastico qualche insegnante di sostegno, quasi sempre precario. Una nuova forma di esclusione, che prende il posto occupato cinquant’anni fa dalle classi speciali, che svilisce i punti di forza e le abilità di studenti che nella gran parte dei casi non avrebbero bisogno di un insegnante di sostegno dedicato, ma a cui viene pubblicamente imposta un etichetta di disabilità, consentendo al ministero dell’istruzione di rimediare al malfunzionamento creato dalla sistematica distruzione della scuola pubblica con la nomina di pochi insegnanti di sostegno precari. D’altra parte, l’impoverimento della scuola pubblica ha senza dubbio peggiorato anche la qualità dell’insegnamento, nonostante la bravura e la professionalità di insegnanti costretti a districarsi tra precarietà e sottodimensionamento dell’organico. E’ molto probabile che questo impoverimento della didattica possa spiegare l’esplosione delle diagnosi dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (dislessia, discalculia, disgrafia, ecc.) anche in questo caso passate da valori di presenza nella popolazione italiana pari al 1% del 2005 al 3,1% del 2012 fino all’attuale 4,2%. A dispetto dell’origine neurobiologica di questi disturbi e delle raccomandazioni cliniche che suggeriscono di non utilizzare queste diagnosi di fronte ai ritardi di origine ambientale nello sviluppo delle competenze di lettura (es. bilinguismo, utilizzo in famiglia di un’altra lingua o di un dialetto, etc…) è decisamente frequente il ricorso alla certificazione del disturbo anche tra bambini con difficoltà di lettura che potrebbero essere ben gestite e con ottimo recupero grazie ad un insegnamento adeguato in ambiente scolastico. A tal proposito, un dato che parla da solo è quello che segnala una valore di presenza del disturbo pari nientemeno che al 12% tra i figli degli immigrati.
L’intervento dei docenti ridotto all’applicazione delle misure dispensative (meno materiale da studiare) e degli strumenti compensativi (uso di schemi e strumenti tecnologici) previsti dalla legge risolve un problema di gestione per l’istituzione scolastica che altrimenti richiederebbe la presenza nelle classi di molte più risorse per poter proporre percorsi di insegnamento efficaci come quello Boscher usato in Francia o le sempre valide indicazioni della Montessori. Oggi è invece preferito il metodo di insegnamento definito “visivo-globale”, nato negli Stati Uniti, più rapido e semplice da applicare, ma che inevitabilmente lascia indietro chi ha maggiori difficoltà (che sono altra cosa dai disturbi…). Le contraddizioni dello stato miserabile in cui i governi degli ultimi 30 anni hanno ridotto la scuola pubblica, vengono così risolte a spese degli studenti con una diagnosi che in molti casi potranno portarsi “a vita” condizionando il loro futuro sociale e lavorativo. Inoltre, non possiamo dimenticare il fatto che le diagnosi sbagliate o “di comodo” diventano un occasione di profitto per centri e studi privati la cui proliferazione va di pari passo con l’aumento di certificazioni.
Che il ricorso ad un aumento ingiustificato e poco credibile delle diagnosi sia legato anche ai margini di profitto che questo offre è una questione d’altra parte molto evidente soprattutto nella psichiatria degli adulti, dove sono forti le pressioni e le ingerenze delle case farmaceutiche nel lavoro dei professionisti della salute mentale per il ricorso a procedure di medicalizzazione e quindi alla prescrizione degli psicofarmaci. A tal proposito, può essere interessante, a proposito di giovani e adolescenti, il caso del Disturbo da Deficit di Attenzione con Iperattività (ADHD), con un aumento di presenza negli Stati Uniti, paese in cui si adotta una massiccia prescrizione del farmaco Ritalin, dal 6,1% di fine anni ’90 all’attuale 10%. Significativo il fatto, al contrario, che in Italia il valore in tutti questi anni sia sempre stato stabile intorno al 3% in seguito ad una legge che nel 2007 ha autorizzato il commercio del Ritalin in Italia, ma obbligando che a prescrivere lo psicofarmaco fossero solo alcuni Centri Regionali specializzati, con lo scopo proprio di contenere diagnosi e terapie farmacologiche.

Rivolta, non resilienza, è quello che serve

L’indifferenza alle cause ambientali del disagio psicologico e la patologizzazione dell’individuo che le istituzioni di cura avanzano con le loro prassi, non consentono solo di scaricare sul singolo giovane o bambino le contraddizioni dei tagli portati alla sanità e alla scuola pubblica, né sono solo funzionali ad una società capitalista in cui la diagnosi di disabilità può diventare occasione di profitto, ma serve anche ad affermare la giustezza dell’ideologia classista della competizione e del successo. Con la certificazione di “disabilità”, i ragazzi che “non ce la fanno”, perché in molti casi hanno un retroterra familiare e sociale più fragile e povero di risorse, possono essere più facilmente costretti in un percorso che favorirà l’esclusione o la marginalità nel mondo del lavoro, primi candidati a far parte di quello che Marx definiva “esercito di riserva”. Se non ci sei riuscito non c’entra la tua provenienza sociale, l’unico da biasimare e compatire sei tu.
Il crescente problema del disagio psicologico è d’altra parte legato a doppio filo con la profonda incertezza che questa società fondata sulla competizione offre alle giovani generazioni strette in una morsa di precarietà sociale e di minacce di disastro ambientale che può non lasciare ottimisti molti giovani circa il loro futuro.
La risoluzione dei problemi psicologici è però una responsabilità che viene attribuita unicamente agli individui che devono intraprendere ed impegnarsi in un percorso di terapia che li riporti ad essere produttivi e performanti. La matrice sociale e sistemica dello stress e dell’angoscia è in gran parte occultata. Il disagio e la sofferenza sono così spoliticizzati e ridotti a manifestazione patologica individuale da medicalizzare. Le precarie condizioni di lavoro o i problemi strutturali e culturali con cui lo studente deve confrontarsi a scuola devono essere affrontati con “resilienza”, privatamente, con le risorse che un giovane ha o che altrimenti deve trovare nella psicoterapia o nel farmaco. Viene in aiuto a questa visione privatistica del disagio, la richiesta delle organizzazioni studentesche riformiste come l’UDS che invocano lo sportello psicologico in ogni scuola, rivendicazione a cui, non a caso, il ministro Valditara non ha posto particolari obiezioni. Non saremo certo noi marxisti ad opporci ad un incremento dei servizi, a cominciare da quelli della sanità pubblica e dei servizi territoriali per la salute mentale.
Come abbiamo argomentato, i continui tagli alla sanità e ai servizi sociali e il sottodimensionamento degli organici sono altrettante cause che favoriscono il diffondersi del disagio psicologico. Tuttavia, critichiamo con forza qualsiasi apparente soluzione che riducendo ogni discorso agli squilibri individuali, evita di considerare o giunge a negare che alla radice delle difficoltà psicologiche ed emotive vi è il fallimento della società capitalista e le sue costrizioni. Le assemblee in cui fare dell’autocoscienza sul proprio malessere a scuola devono quindi lasciare il passo alla ormai necessaria e non più rimandabile organizzazione delle lotte contro le condizioni insopportabili in cui il sistema ci costringe. Franco Basaglia, dopo l’approvazione della legge che prese il suo nome, qualche giorno prima di morire mise in guardia dal limite e dall’inganno di chi pensava di affrontare la piaga del “disagio mentale” grazie alla legge 180, ma senza lottare per cambiare la società: “Potrebbero passare degli anni prima che le cose cambino e tutto potrebbe continuare come prima. Allora noi potremo continuare a parlare di prevenzione, ma questa legge finirebbe col rafforzare tutti i problemi dell’assistenzialismo: in questa prospettiva essa diviene molto pericolosa. Quando io dico che la situazione deve essere cambiata, è nel senso di una gestione da parte della base, cioè a dire una gestione popolare della società e questa non è una cosa impossibile. Noi abbiamo l’esperienza e la pratica di questa possibilità. Nella parola prevenzione, come noi la concepiamo, c’è l’equivalente della partecipazione, non in senso formale ovviamente, ma come partecipazione alla lotta di classe” (F. Basaglia in “Perspective psychiatriques”). Queste riflessioni sono ancora oggi valide nella lotta per il diritto al benessere e alla salute mentale e più in generale per la trasformazione rivoluzionaria della società e per il socialismo.

Fonte: RIVOLUZIONE

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