Sulla morte di Matteo Tenni – Ascoltare il dolore

Il Corriere del Trentino ha ospitato nei giorni immediatamente successivi alla morte di Matteo Tenni una lettera di un operatore di una cooperativa che, denunciando il fatto e la pericolosità dei matti, auspicava la progettazione e la costruzione di luoghi per ospitare per lungo periodo persone con disturbo mentale. Naturalmente si premurava di dire che questi dovessero essere luoghi belli, accoglienti, gradevoli e amichevoli. Successivamente lo stesso giornale ha ospitalo una riflessione di Gabriele De Luca che pubblichiamo.

Di Gabriele Di Luca

Non c’è niente di peggio che tentare di correggere un nuovo errore ripetendo un errore già fatto in precedenza. Si potrebbe partire da qui, da un appunto tracciato al margine di una tragedia capace di scompigliare l’ordine apparente (ogni ordine è solo apparente) per provare a ritrovare la residua ragionevolezza che quanto accaduto a Pilcante di Ala tende a presentarci come distrutta e irricomponibile.

Gli eventi sono noti, seppur non ancora esaminati nei dettagli che peraltro non saranno mai sufficienti a spiegare, a giustificare. Matteo Tenni, un uomo “affetto da problemi psichici”, è stato ucciso da un altro uomo, un carabiniere, che ha reagito con la massima violenza possibile a una crisi esplosa in un quadro di pericolosità o di rischio ampiamente probabile. Ma se sulle circostanze specifiche conviene per adesso tacere, lasciando che siano le indagini a soppesare ciò che dev’essere ancora accertato, appare urgentissimo invece riflettere ad alta voce su una scala più ampia, chiedendoci insomma quali siano, se esistano, dei provvedimenti da adottare in casi avvicinabili a questo, perché non si ripetano.

Il primo nodo da sciogliere, il più difficile, riguarda il dubbio che in genere viene in mente allorché ci troviamo davanti a dei fatti che sembrerebbero contestare l’acquisizione più rilevante, quella che portò, al tramonto degli anni Settanta, alla chiusura dei manicomi: la libertà è terapeutica. Come sapeva benissimo il principale fautore di quella riforma, Franco Basaglia, l’implementazione della legge 180 avrebbe dovuto continuare sulla strada della deistituzionalizzazione della psichiatria proprio per evitare d’interpretare la salute mentale come qualcosa di inerente a un orizzonte di riferimento ristretto. In un saggio del 1992, significativamente sottotitolato Per una strategia di psichiatria comunitaria, collettiva, territoriale, Franco Rotelli ha scritto: «Non c’è riabilitazione del paziente psichiatrico senza riabilitazione della psichiatria, senza deistituzionalizzazione della stessa» (il saggio di Rotelli si può leggere adesso nella raccolta Quale psichiatria?, appena edito da AlphaBeta Verlag). Ma cosa vuol dire, in buona sostanza, deistituzionalizzare la psichiatria, e perché solo da qui può passare la possibilità che non riemergano impulsi a preferire scorciatoie neo-segregazioniste, cioè basate su un accrescimento delle pratiche di contenzione, seppur in varianti ipocritamente edulcorate?

Sempre Rotelli, sempre nel saggio citato: «La libertà è terapeutica se viene sostenuta, aiutata, protetta, costruita materialmente e socialmente». La follia (ammesso e non concesso che sappiamo leggere univocamente i tratti del suo volto) è solo un modo che la ragione cosiddetta “normale” utilizza per riconoscersi, ma al prezzo di silenziare un malessere che non pertiene soltanto a chi soffre, bensì investe la società nel suo complesso. Un malessere che quindi può essere attraversato (e curato, o per meglio dire “abitato”) solo se tutta la società è disposta a tessere una rete di ascolto distribuita su più orecchie possibili, e soprattutto non confinate entro nuovi spazi di reclusione, in nuove, per quanto più raffinate, strategie di opacizzazione dell’esperienza di un dolore che riguarda tutti.

Fonte: Forumsalutementale

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